Studi di Filosofia
Emil Cioran
Alcuni Aforismi di Cioran, tratti da "La Caduta nel Tempo".
* Non siamo realmente noi se non quando mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità.
* Non coltiviamo il brivido in sé, vagheggiamo ciò che è nocivo.
* Liberarsi dell'ossessione di sé. Nessun imperativo è più urgente.
* Promossi al rango di incurabili, siamo materia dolente, carne urlante, ossa rose da grida, e i nostri stessi silenzi non sono che lamenti strozzati.
* Distruggere significa esercitarsi a non essere niente.
* Il tale è dominato dalla cupidigia, dalla gelosia, dalla vanità? Lungi dal biasimarlo si deve invece lodarlo. Che cosa sarebbe senza di esse? Quasi nulla, vale a dire puro spirito, più precisamente angelo (sterile e inefficace quanto la luce in cui vegeta).
* L'automatismo della malattia è tale che essa non può concepire niente al di fuori di se stessa. A lungo andare, essa non dà più nulla a colui che soffre se non la conferma quotidiana della sua impossibilità di non soffrire.
* Finchè si sta bene non si esiste, più esattamente: non si sa di esistere.
* Non possiamo immaginarci senza di esso né separarlo da noi stessi, dal nostro essere, di cui è la sostanza, anzi la causa.
* L'inferno è quel presente che non si muove, quella tensione nella monotonia, quell'eternità rovesciata che non si apre su niente, nemmeno sulla morte, mentre il tempo che scorreva, che si svolgeva, offriva almeno la consolazione di un'attesa, sia pure funebre.
* Colui che non ne distoglie mai la mente dà prova di egoismo e di vanità; vive in funzione dell'immagine che gli altri si fanno di lui, non può accettare l'idea che un giorno non sarà più niente; poichè l'oblio è il suo incubo di ogni istante.
* La vera vita comincia e finisce con l'agonia.
* Presto egli non sarà più niente. Non era niente neanche prima della malattia. Egli è soltanto nell'intervallo che intercorre tra il vuoto.
* Quell'essere che lui stesso ha demolito ora smania e si agita nella vana speranza di ricostituirlo, come quella di Macbeth, la sua coscienza è devastata, anche lui ha ucciso il sonno, il sonno ove riposavano le certezze... Dopo aver dubitato dei propri dubbi, finisce col dubitare di sé, con lo sminuirsi e con l'odiarsi, col non credere più alla propria missione di distruttore. Una volta reciso l'ultimo legame, quello che lo teneva attaccato a se stesso, e senza il quale perfino l'autodistruzione è impossibile, egli cercherà rifugio nel vuoto primordiale...
Non c'è più alcun argomento che lo attragga o che egli voglia innalzare alla dignità di problema, di flagello...
è ridotto a non potersi più rivolgere ad altri che al Non-Creatore, a cui assomiglia, con cui si identifica, e di cui il Tutto, indistinguibile dal Niente, è lo spazio dove, sterile e prostrato, egli trova compimento e riposo.
Da "Storia e Utopia" (1960)
* Esistere significa accondiscendere alla sensazione, dunque all'affermazione di sé.
* Creare significa trasmettere le proprie sofferenze.
Da "Squartamento".
* Beati tutti coloro che nati prima della scienza, avevano il privilegio di morire alla loro prima malattia.
* Anche quando non accade niente, tutto sembra di troppo.
Che dire allora in presenza di un avvenimento?
* è consolante potersi dire: "La mia vita corrisponde esattamente al genere di arenamento che mi auguravo".
* L'uomo è un Nulla conscio di sé.
* Quando si è votati al tormentarsi, i propri tormenti, per quanto grandi siano, non bastano, ci gettiamo anche su quelli degli altri, ce li appropriamo.
* Lo stato di salute è uno stato di non sensazione, anzi, di non realtà. Non appena si cessa di soffrire, si cessa di esistere.
* L'essere certi che non c'è salvezza è una forma di salvezza. A partire da lì si può organizzare la propria vita come pure costruire una Filosofia della Storia. L'Insolubile come soluzione,
come sola via d'uscita.
* Sopprimevo dal mio vocabolario una parola dopo l'altra. Finito il massacro, una sola superstite: Solitudine.
Da "La Tentazione di Esistere".
* "Contro che cosa reagire?" Il Nulla era la mia Ostia: tutto in me e fuori di me si transustanziava in spettro.
* Soffrire: il solo modo d'acquisire la sensazione di esistere.
* Più nulla da rovesciare se non se stesso, ultimo idolo da abbattere... le proprie rovine lo attirano.
* Non si distrugge. Ci si distrugge. Mi sono odiato in tutti gli oggetti dei miei odii, ho immaginato miracoli di annientamento...
* Più nulla da cercare se non la ricerca del Nulla.
* Che tutto si fermi dal momento che non riesco a concepire né a fare un passo di più verso un orizzonte qualsiasi.
Da "Il Funesto Demiurgo".
* Per smettersi di tormentarsi, bisogna lasciarsi andare a un disinteresse profondo, smettere di preoccuparsi del quaggiù o del lassù, cadere nel menefreghismo dei morti. Come guardare un vivo senza immaginarlo cadavere, come guardare un cadavere senza mettersi al suo posto? Essere supera l'intendimento.
Essere fa paura.
* Come rinunciare a ciò che non ritroveremo mai, a quel niente inaudito e pietoso che porta il nostro nome?
* Soffrire è produrre Conoscenza.
* A furia d'insistere sulle mie miserie passate e future, ho trascurato quelle del presente. Ciò mi ha consentito di sopportarle più agevolmente che se avessi consacrato le mie riserve d'attenzione.
* Vi sono notti in cui l'avvenire si abolisce, e di tutti i suoi momenti sussiste soltanto quello che sceglieremo per più non essere.
Da "Lacrime e Santi"
* Dio ha sfruttato tutti i nostri complessi di inferiorità, a cominciare da quello che ci impedisce di crederci Dèi.
* Dio ha creato il mondo per paura della solitudine. è questa l'unica spiegazione possibile della Creazione. La sola ragione di essere di noi creature è di distrarre il Creatore...
* Poichè non esiste soluzione ad alcun problema, né via d'uscita ad alcuna situazione, non ci rimane che girare a vuoto. Nutriti di sofferenza, i pensieri prendono la forma di aporie, questo chiaroscuro della mente, la somma degli insolubili proietta una tremula ombra sulle cose. La serietà incurabile del Crepuscolo...
* Tutti i declini sono qui con me, per sostenermi...
* Non si vede più niente all'infuori del Niente e questo Niente è Tutto.
* Tutti i Nichilisti hanno avuto a che fare con Dio. Prova supplementare della sua vicinanza al Niente. Dopo aver calpestato tutto, altro non vi resta da distruggere se non quest'ultima riserva del Nulla.
* Credo di non aver mai perso un'occasione di essere triste. (La mia vocazione d'uomo)
* I nostri occhi sanno tutto, imbevuti del Nulla ci assicurano che niente ci può più accadere.
* Questo bisogno di profanare le tombe, di animare i cimiteri, in un'Apocalisse primaverile!
* La non aderenza alla vita genera una voglia di fissità. Si comincia a vedere il mondo in forme rigide, linee definite, contorni morti; quando non provate più quella gioia che nutre il divenire, tutto sfocia in simmetrie; quello che tra i vari tipi di follia, è stato chiamato "Geomatrismo", non sarebbe dunque altro che un eccesso di questa predisposizone all'immobilità che accompagna tutte le depressioni. Il gusto delle forme tradisce una tendenza segreta alla morte. Più siete depressi, più le cose si fissano, nell'attesa di farsi ghiaccio.
Da "Sillogismi dell'amarezza".
* è facile essere "profondi": basta lasciarsi sommergere dalle proprie tare.
* Un libro che, dopo aver demolito tutto, non demolisca anche se stesso, ci avrà esasperato invano.
* Se posso lottare contro un accesso di depressione, in nome di quale vitalità dovrei accanirmi contro un'ossessione che mi appartiene, che mi precede? Se sto bene, prendo la via che desidero.
"Malato" non sono più io a decidere: è la mia malattia.
* Tutte le acque sono color dell'annegamento.
* Quando si impara ad attingere nel vuoto a piena mani, non si paventa più il domani.
* Non chiedetemi più il mio programma. Respirare, non ne è già uno?
* Senza la speranza di un dolore più grande non potrei sopportare quello del momento, fosse anche infinito.
* A che è dovuta la sua aria di sufficienza?
Sono riuscito a sopravvivere a molte notti durante le quali mi chiedevo: mi ucciderò all'alba?
Da "Esercizi d'ammirazione".
* Uno dei primi capitoli si intitolava "L'Antiprofeta". In realtà reagivo da profeta, mi attribuivo una missione, dissolvente se si vuole, ma pur sempre una missione. Attaccando i profeti, attaccavo me stesso e... Dio, in conformità col mio principio di allora secondo il quale ci si dovrebbe occupare soltanto di lui e di sé.
* Un'incoercibile voluttà di negare...
* Le ossessioni espresse sono affievolite e per metà superate. Un libro che esce è la tua vita o una parte della tua vita che non ti appartiene più, che ha cessato di opprimerti e logorarti.
* ... della scossa fortificante di uno spirito che ha costruito sull'abisso invece di lasciarvisi cadere, e di coltivarne le angosce.
* (Benjamin Fondane) Sulla sua persona, è vero, i segni della prosperità; solo che tutto in lui era al di là della salute e della malattia, come se l'una e l'altra fossero unicamente delle tappe che aveva superato.
* (Fitzgerald) Ecco l'orrore sopraggiungere come il temporale. E se questa notte prefigurasse quella che segue la morte. Se l'aldilà non fosse che un brivido senza fine sull'orlo di un abisso in cui ci spinge tutto quanto in noi è vile e corrotto, e nel quale ci precedono la viltà e la corruzione del mondo. Nessuna scappatoia, nessuna via d'uscita, nessuna speranza, null'altro che le perpetue ripetizioni del sordido e del semi tragico... O forse attendere indefinitamente ai confini della vita senza potere mai oltrepassare la soglia che ce ne separa. Quando l'orologio suona le 4 non sono più che uno spettro.
* Mi identificavo adesso con gli oggetti del mio orrore e della mia compassione.
Da "Cioran: un Angelo Sterminatore" di Fernando Savater
* Ho cominciato ad essere "io" grazie all'insonnia, a quella catastrofe alla quale devo tutto e che ha segnato così profondamente la mia gioventù.
* Distruggo me stesso e così voglio: intanto in questo clima asmatico che creano le convinzioni, in un mondo di oppressi, io respiro. Respiro a modo mio.
Chissà? Magari un giorno Lei conoscerà il piacere di puntare un'idea, di spararci contro, di vederla cadere, e poi di ricominciare questo esercizio con un'altra, con tutte.
Questo desiderio di chinarsi su un essere, di distoglierlo dai suoi antichi appetiti, dai suoi antichi vizi, per imporglierne altri nuovi, più nocivi, affinchè perisca a causa loro...
Rivolgersi poi contro se stesso, torturare i vostri ricordi, e le vostre ambizioni, e corrodendo il vostro stesso alito, rendere pestilenziale l'aria per asfissiarsi meglio...
Un giorno magari lei conoscerà questa forma di libertà,
questa forma di respirazione che libera da se stesso e da tutto.
* Ribelli contro Dio, astrazione suprema dell'uomo, il nostro secolo scopre che è l'uomo il vero obiettivo della nostra ribellione.
* Discernere che ciò che siete, non è voi, che quello che avete non è vostro, non essere più complice di niente, nemmeno della propria vita, questo è vedere giusto, questo è scendere fino al Nulla radice del Tutto.
* Anche se fosse un inganno, l'esperienza del vuoto meriterebbe sempre di essere fatta. Ciò che essa propone, ciò che tenta, è di ridurre a niente la vita e la morte al solo scopo di rendercele tollerabili.
Da "Il Funesto Demiurgo"
Se si eccettuano alcuni casi aberranti, l'uomo non è propenso al bene: quale dio ve lo spingerebbe? E’ costretto a vincersi, a farsi violenza, per poter compiere il sia pur minimo atto non inquinato dal male. Quando vi riesce, ogni volta egli provoca, umilia il suo creatore. E se gli succede d'essere buono non più per calcolo o sforzo, bensì per natura, lo deve a una inavvertenza dall'alto: va a situarsi fuori dall'ordine universale, nessun progetto divino lo aveva previsto. Non si capisce che posto occupi fra gli esseri, e nemmeno se ne sia uno. Sarà un fantasma?
Il bene è ciò che fu o sarà, ciò che mai è.
Parassita del ricordo o del presentimento, preterito o possibile, non può essere attuale, né sussistere di per sé: fino a quando è, la coscienza lo ignora, se lo appropria soltanto quando è scomparso. Tutto prova la sua insostanzialità; è una grande
forza irreale, è il principio che abortì sul nascere: cedimento, fallimento immemoriale, i cui effetti spiccano a mano a mano che si dipana la storia. Agli inizi, nella promiscuità in cui si operò lo slittamento verso la vita, qualcosa di innominabile dovette
accadere, che si propaga nei nostri malesseri se non nei nostri ragionamenti. Che l'esistenza sia stata viziata alla sorgente, insieme agli elementi, chi potrebbe esimersi dal supporlo? Colui che non sia stato indotto a considerare questa ipotesi, come
minimo una volta; il giorno, avrà vissuto da sonnambulo.
È difficile, è impossibile, credere che il dio buono, il « Padre », sia implicato nello scandalo della creazione. Tutto fa pensare che non vi abbia mai preso parte, che essa sia opera di un dio senza scrupoli, un dio tarato. La bontà non crea; manca
d'immaginazione; e per fabbricare un mondo, sia pure abborracciato, ce ne vuole. A rigore, è da un miscuglio di bontà e di cattiveria che può sorgere un atto, o un'opera. Oppure, un universo. A ogni modo, considerando il nostro, è ben più agevole risalire a un dio sospetto che a un dio rispettabile. Manifestamente, il dio buono non era attrezzato per creare: possiede tutto, fuorché l'onnipotenza.
Grande per le sue deficienze (bontà e anemia vanno
di pari passo), è il prototipo dell'inefficacia: non può
aiutare nessuno... Del resto, ci si aggrappa a lui solo quando ci siamo spogliati della nostra dimensione storica; se la reintegriamo ci è subito estraneo, incomprensibile: non ha niente che affascini, niente di un mostro. È a questo punto che ci volgiamo al creatore, dio inferiore e indaffarato, istigatore d'eventi. Per comprendere come abbia potuto creare dobbiamo figurarcelo preda del male, che è innovazione, e del bene, che è inerzia. Questa lotta fu probabilmente nefasta al male, che dovette subire in essa il contagio del bene: ciò spiega come mai la creazione non riesca a essere interamente cattiva.
Poiché il male presiede a tutto ciò che è corruttibile, ossia a tutto ciò che è vivente, è ridicolo il tentativo di voler dimostrare come, rispetto al bene, contenga meno essere, o addirittura non ne contenga affatto. Coloro che lo assimilano al nulla si figurano di salvare con ciò quel povero dio buono. Non è possibile salvarlo se non avendo il coraggio di
disgiungere la sua causa da quella del demiurgo.
Per esservisi rifiutato, il cristianesimo fu costretto durante tutta la sua carriera, a ingegnarsi per imporre l'inevidenza d'un creatore misericordioso: impresa disperata, che ha esaurito il cristianesimo e compromesso il dio che voleva preservare.
Non possiamo impedirci di pensare che la creazione, rimasta allo stadio d'abbozzo, non poteva compiersi, né lo meritava, e che nel suo insieme essa è una colpa: il misfatto famoso commesso
dall'uomo appare quindi come la versione minore d'un misfatto di ben altra gravità. Di che siamo colpevoli, se non di avere seguito più o meno servilmente l'esempio del creatore? La fatalità che fu la sua, ben la riconosciamo in noi: non per nulla siamo venuti fuori dalle mani di un dio infelice e cattivo, un dio maledetto.
Da "Al culmine della disperazione" (1933), pagina 103
La Bellezza del Fuoco.
Il fascino delle fiamme sta nel loro potere di conquistare attraverso uno strano gioco al di là dell'armonia, delle proporzioni e della misura. Il loro impalpabile slancio non simboleggia la grazia e la tragedia, l'ingenuità e la disperazione, il piacere e la tristezza? Non ci sono, nella loro divorante trasparenza, nella loro bruciante immaterialità, la leggerezza e il volo delle grandi purificazioni e dei grandi incendi interiori? Vorrei essere sollevato dalla loro trascendenza, sospinto dal loro impulso delicato e insinuante, vorrei galleggiare su un mare di fuoco, consumarmi in una morte eterea, in una morte irreale. La loro strana bellezza dà l'illusione di una morte pura e sublime, simile a un azzurro aurorale. Non è significativo che attribuiamo una tale morte solo alle creature alate e leggiadre? La immaginiamo come un incendio di ali, come una morte immateriale. Solo le farfalle muoiono così? E coloro che muoiono delle loro stesse fiamme!?
Pagina 122
Sarà il mio vuoto interiore a inghiottirmi, il mio stesso vuoto. Sentirsi crollare dentro di sé, nel proprio nulla, sentire quanto è rischioso pensare a se stessi, sentirsi cadere nel proprio caos interno! La sensazione di precipitare davvero nel vuoto è assai meno complessa di questa sensazione folle. Rendersi conto delle proprie infinite profondità, da cui risuonano richiami dal demoniaco sortilegio, significa pervenire a una forma insolita di espansione centripeta, in cui il centro dell'essere si sposta, in un gioco indefinito, verso un nulla soggettivo. L'angoscia del crollo fisico non ha il fascino morboso dell'angoscia del crollo interiore. Perchè a quest'ultima si aggiunge la soddisfazione di morire in se stessi, di trovare la morte nel proprio nulla.
***
Mi abbandono allo spazio come la lacrima di un cieco. Di chi sono io la volontà, chi vuole in me? Mi piacerebbe che un demone concepisse una cospirazione contro l'uomo: sarei pronto ad associarmi. Stanco di ingarbugliarmi nelle esequie dei miei desideri, avrei finalmente un pretesto ideale, giacché la Noia è il martirio di quelli che non vivono e non muoiono per nessuna fede.
Se Dio ha potuto affermare di essere "colui che è", l'uomo, al contrario, potrebbe definirsi "colui che non è". E proprio questa mancanza, questo deficit di esistenza, risvegliando per reazione la sua tracotanza, lo incita alla sfida o alla ferocia. Avendo disertato le sue origini, barattato l'eternità con il divenire, maltrattato la vita proiettando in essa la propria giovane demenza, egli emerge dall'anonimato tramite un susseguirsi di rinnegamenti che fanno di lui il grande transfuga dell'essere.
(dal commento introduttivo a "La Caduta nel Tempo")
Da "Il Funesto Demiurgo"
Il bene è ciò che fu o sarà, ciò che mai è.
Parassita del ricordo o del presentimento, preterito o possibile, non può essere attuale, né sussistere di per sé: fino a quando è, la coscienza lo ignora, se lo appropria soltanto quando è scomparso.
Tutto prova la sua insostanzialità; è una grande forza irreale, è il principio che abortì sul nascere: cedimento, fallimento immemoriale, i cui effetti spiccano a mano a mano che si dipana la storia. Agli inizi, nella promiscuità in cui si operò lo slittamento verso la vita, qualcosa di innominabile dovette accadere, che si propaga nei nostri malesseri se non nei nostri ragionamenti. Che l'esistenza sia stata viziata alla sorgente, insieme agli elementi, chi potrebbe esimersi dal supporlo? Colui che non sia stato indotto a considerare questa ipotesi, come minimo una volta; il giorno, avrà vissuto da sonnambulo.
È difficile, è impossibile, credere che il dio buono, il « Padre», sia implicato nello scandalo della creazione. Tutto fa pensare che non vi abbia mai preso parte, che essa sia opera di un dio senza
scrupoli, un dio tarato. La bontà non crea; manca d'immaginazione; e per fabbricare un mondo, sia pure abborracciato, ce ne vuole. A rigore, è da un miscuglio di bontà e di cattiveria che può sorgere un atto, o un'opera. Oppure, un universo. A ogni modo, considerando il nostro, è ben più agevole risalire a un dio sospetto che a un dio rispettabile.
Manifestamente, il dio buono non era attrezzato per creare: possiede tutto, fuorché l'onnipotenza. Grande per le sue deficienze (bontà e anemia vanno di pari passo), è il prototipo dell'inefficacia: non può aiutare nessuno... Del resto, ci si aggrappa a lui solo quando ci siamo spogliati della nostra dimensione storica; se la reintegriamo ci è subito estraneo, incomprensibile: non ha niente che affascini, niente di un mostro. È a questo punto che ci volgiamo al creatore, dio inferiore e indaffarato, istigatore d'eventi. Per comprendere come abbia potuto creare dobbiamo figurarcelo preda del male, che è innovazione, e del bene, che è inerzia. Questa lotta fu probabilmente nefasta al male, che dovette subire in essa il contagio del bene: ciò spiega come mai la creazione non riesca a essere interamente cattiva. Poiché il male presiede a tutto ciò che è corruttibile, ossia a tutto ciò che è vivente, è ridicolo il tentativo di voler dimostrare come, rispetto al bene, contenga meno essere, o addirittura non ne contenga affatto.
Coloro che lo assimilano al nulla si figurano di salvare con ciò quel povero dio buono. Non è possibile salvarlo se non avendo il coraggio di disgiungere la sua causa da quella del demiurgo. Per
esservisi rifiutato, il cristianesimo fu costretto durante tutta la sua carriera, a ingegnarsi per imporre l'inevidenza d'un creatore misericordioso: impresa disperata, che ha esaurito il cristianesimo e compromesso il dio che voleva preservare.
Non possiamo impedirci di pensare che la creazione, rimasta allo stadio d'abbozzo, non poteva compiersi, né lo meritava, e che nel suo insieme essa è una colpa: il misfatto famoso commesso dall'uomo appare quindi come la versione minore d'un misfatto di ben altra gravità. Di che siamo colpevoli, se non di avere seguito più o meno servilmente l'esempio del creatore? La fatalità che
fu la sua, ben la riconosciamo in noi: non per nulla siamo venuti fuori dalle mani di un dio infelice e cattivo, un dio maledetto.
Predestinati alcuni a credere nel dio supremo ma impotente, altri nel demiurgo, altri infine nel demonio, noi non scegliamo le nostre venerazioni, né le nostre blasfemie.
Il demonio è il rappresentante, il delegato del demiurgo, di cui
quaggiù gestisce gli affari. A dispetto del suo prestigio e del terrore inerente al suo nome, non è che un amministratore, un angelo preposto a un lavoro di basso rango, la storia.
Diversa è la portata del demiurgo: come affronteremmo, lui assente, le nostre prove? Se ne fossimo all'altezza, o semplicemente un poco degni di esse, potremmo astenerci dall'invocarlo. Ma di fronte alle nostre palesi insufficienze ci aggrappiamo a lui, lo imploriamo anzi di esistere: se si scoprisse che è una finzione, quali mai sarebbero l'avvilimento o la vergogna! Su chi altro sgravarci delle nostre lacune, delle nostre miserie, di noi stessi? Per nostro decreto istituito autore delle nostre carenze, ci serve di scusa per tutto ciò che non siamo potuti essere. Quando inoltre attribuiamo a lui la responsabilità di questo universo mancato, assaporiamo un po' di pace: non più incertezze sulle nostre origini o sulle nostre prospettive, bensì una totale sicurezza nell'insolubile, fuori dall'incubo della promessa.
Donatien-Alphonse-François de Sade
De Sade, tra Genio e Follia (o Il Sesso come Nichilismo)
uno scritto di Lunaria
Il mio incontro con de Sade - e anche con Nietzsche - avvenne a 14 anni. Lessi la versione mutilata di "La Nouvelle Justine ovvero le disgrazie della virtù", che era la copia reperibile in biblioteca;
a 18 anni appena compiuti acquistai l'opera completa (2 volumi).
Una poderosa lettura (384 pagine + 458 pagine) che passa da picchi di volgarità a quelli di filosofia (pochi lo penserebbero a prima vista, ma l'opera di de Sade è un'apologia dell'Ateismo).
I toni dell'Opera sono così altisonanti, che per tutto l'intreccio del romanzo si passa dalla descrizione verista di una società darwiniana (siamo onesti: de Sade o meno, la nostra società - come allora, come da sempre - è una società egoistica ed egotica) a quella semplicemente grottesca, dalle profonde dissertazioni filosofiche/antropologiche sulla natura dell'uomo, a quelle persino mitologiche (tutto lo stile letterario di de Sade pesca dai riferimenti classici di Dee ed eroi, secondo la consuetudine poetica del tempo).
La cosa più stravagante è che a toni assolutamente "femministi"
- le tante eroine sadiane, Juliette, la Dubois, Delmonse, sono essenzialmente donne autonome, indipendenti, fiere, gaudenti, realizzate, di successo e per niente intimorite dagli uomini - si contrappongono toni "misogini", e alla propaganda anti-classe sociale (si vedano i discorsi dei briganti, e dei mendicanti) si antepone lo sperpero compiaciuto di lussi e ricchezze degli altri personaggi.
Tra genio e follia, appunto. Le sue pagine anti-Dio restano tra i più ferali esempi di Ateismo, perché la logica sadiana resta ancora inconfutabile, nei suoi sofismi, così veri sulla natura umana, e proprio per questo, crudeli; ma in generale, forse più che all'erotismo, - troppo sfrenato, per essere realizzabile nella realtà... e sono note le metodiche e minuziose messe in scena sadiane dei supplizi -, forse l'opera sadiana si configura ad essere emblema del Grottesco e della Parodia. Parodia dell'Ordine, precisamente: ordine sociale, morale, religioso, che de Sade dissacra fino a sfiorare un eccesso di puntigliosità e di ripetizione spossante nelle cifre. Nella società sadiana il "Fai ciò che vuoi, perché non sei affatto colpevole della tua indole, e tutto ciò che ti ispira la Natura è conforme ai suoi fini"
("Ma anche qualora si desiderasse cambiare gusto, lo si potrebbe? è forse in nostro potere modificarci? Possiamo diventare altri da quello che siamo? Lo esigereste da un individuo deforme? [...] Tutto appartiene alla Natura, nulla a noi: è lei ad ispirarci contemporaneamente la tendenza al crimine e l'amore delle virtù" fanno notare Clément e Sylvestre, a Justine)
più che risultare erotico (per quell'impossibilità di trasferire sul piano concreto della realtà, le proprie fantasie erotiche), risulta deprimente e nichilista: l'essere umano, nient'altro che "passioni inutili" (i molteplici, ma inconcludenti e inappaganti orgasmi dei personaggi) di fronte a quella Natura Matrigna che lo ha partorito e che poi lo abbandona all'esistenza. Non a caso, de Sade, parlando di eternità, ricompense e pene, fa dire a Coeur-de-Fer: "La filosofia mi consolerebbe, perché mi assicura un Nulla eterno."
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"Bisogna guardarsi bene dal credere", aggiunse, "che sia il matrimonio a render felice una fanciulla; sottomessa alla legge dell'imene, essa non può aspettarsi, in cambio delle molte tristezza da patire, che ben pochi piaceri; mentre, abbandonandosi al libertinaggio, può sempre cautelarsi contro le cattiverie dell'amante, o consolarsi avendone molti."
"Quel che conduce alla vera felicità non è dunque che l'apparenza di quella virtù a cui i ridicoli pregiudizi degli uomini hanno condannato il nostro sesso."
"Le virtù, le religioni, sono soltanto freni popolari che i filosofi disprezzano e si fanno gioco di infrangere."
"Come può una fanciulla esser tanto ingenua da credere che la virtù dipenda dalla maggiore o minore apertura di una delle parti del corpo? E che importa agli uomini o a Dio che quella parte sia intatta o sciupata?"
"Se il Dio delle nazioni fu partorito nel seno dello spavento, fu anche in quello del dolore che ogni uomo diede forma alla potenza sconosciuta ch'egli creò per se stesso: fu dunque sempre nel laboratorio del terrore e della tristezza che l'uomo sventurato creò il ridicolo fantasma di cui fece il suo Dio. E perché avremmo bisogno di questo motore, quando riflessione e studio sulla natura ci dimostrano che il moto perpetuo è la prima delle sue leggi? Se tutto si muove per se stesso, per tutta l'eternità, il sovrano motore da voi supposto ha agito un solo giorno: ora, quale culto legittimo potreste rendere a un Dio dimostrato inutile oggi?"
"Cessa di credere a questo Dio fantastico, bambina mia; non è mai esistito. La natura basta a se stessa; non ha bisogno di un motore; questo motore, gratuitamente supposto, non è che una decomposizione delle sue stesse forze, non è se non quello che noi diciamo a scuola una petizione di principio. Un Dio presuppone una creazione, vale a dire un istante in cui non c'era nulla, oppure un istante in cui tutto fu nel caos. Se l'uno o l'altro di questi stati era un male, perché il vostro stupido Dio ha permesso che sussistesse? Era un bene? Perché lo cambiò? Ma se ora è tutto bene, il vostro Dio non ha più nulla da fare; se è inutile, può essere potente? Se non è potente, può essere Dio? Può meritare il nostro omaggio? Se la natura si muove incessantemente, in una parola, a cosa serve il motore? E se il motore agisce sulla materia muovendola, come mai non è materia esso stesso? Potete concepire l'effetto dello spirito sulla materia, e la materia mossa dallo spirito che, esso stesso, non possiede movimento? Voi dite che il vostro Dio è buono; e tuttavia, secondo voi, malgrado la sua alleanza con gli uomini, malgrado il sangue del suo caro figlio, venuto per farsi appendere in Giudea, al solo scopo di cementare tale alleanza, malgrado tutto ciò, ripeto, ci saranno ancora i due terzi e mezzo del genere umano condannati al fuoco eterno, perché non hanno ricevuto da lui la grazia che tuttavia gli chiedono ogni giorno. Voi dite che è giusto, questo Dio! è forse giusto accordare la conoscenza di un culto che gli è gradito soltanto alla trentesima parte dell'universo, abbandonando il resto nell'ignoranza ch'egli punirà con l'estremo supplizio? Cosa direste di un uomo che fosse giusto come lo è il vostro Dio? è onnipotente, aggiungete. Ma, in questo stato, il male dunque gli è gradito, perché esiste sulla terra in quantità infinitamente maggiore del bene; e tuttavia lo lascia sussistere. Non c'è dunque una via di mezzo, qui: o il male gli è gradito o non ha il potere di opporvisi e, nell'un caso come nell'altro, non devo pentirmi di esservi incline; infatti, se non può impedirlo, certamente io non posso essere più forte di lui; e se gli è gradito, io non devo annientarlo in me. è immutabile, voi dite ancora: e tuttavia lo vedo cambiare cinque o sei volte di popolo, di legge, di volontà, di sentimento. D'altronde, l'immutabilità presuppone l'impassibilità: ora, un essere impassibile non può essere vendicativo; e voi tuttavia sostenete che il vostro Dio si vendica (nota di Lunaria: in riferimento alle città di Sodoma e Gomorra).
Si freme di orrore, vedendo la quantità di ridicolaggini e di incoerenze da voi attribuite a questo fantasma, esaminando a piacimento tutte le qualità ridicole e contraddittorie con le quali i suoi sostenitori sono costretti a rivestirlo per farne un essere accettabile, senza riflettere che più lo complicano, più lo rendono inconcepibile, più lo giustificano, più lo sviliscono. Verificate, Justine, verificate come tutti i suoi attributi si distruggono e si consumano reciprocamente; e dovrete riconoscere che questo essere esecrabile, nato dalla paura degli uni, dalla furbizia degli altri, e dall'ignoranza di tutti, non è che una rivoltante banalità che non merita da parte nostra un solo istante di fede, né un solo istante di rispetto; una stravaganza pietosa che ripugna all'intelletto, che rivolta lo stomaco, e che è uscita dalle tenebre solo per il tormento e l'umiliazione dell'uomo."
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De Sade è l'autore più citato e il meno letto in assoluto.
è scontato trovare chi ne parli per sentito dire, è raro trovare chi lo abbia letto dal principio alla fine.
Dal commento di Gianni Nicoletti
"Sade (...) era così fermamente ateista da scagliarsi contro Dio con le più feroci invettive, e Antoine Adam castiga la ingenuità di credere che, se insultava l'essere con tanto furore, bisognava che si pure inconsciamente continuasse ad avere fede in lui; invece, insultava l'idea di Dio e non Dio, per lui inesistente.
(Nota di Lunaria: più che l'inesistenza di Dio, occorre valutare meglio due dei suoi attributi: la sua inutilità di fronte all'Ego del Singolo e i suoi imperdonabili errori e mancanze. Del resto che Dio sia "pasticcione e cattivo biologo" lo fa notare anche lo stesso de Sade...)
Discorso nerboruto ma erroneo, come si vedrà; e per incominciare, se a suo sostegno Adam trova in Sade intimamente connesse la concezione teista e dispotica, c'è da ribattere che nello stesso Sade il dispotismo è connesso intimamente anche all'ateismo"
"Nel Sadismo la Natura è crudele, vorace, distruttiva (...) Sade cercò di formulare un organismo coerente, impeccabile e monolitico, della prospettiva pessimista fino a raggiungere un nihilismo, il che non può non apparire contraddittorio e inaccettabile per la intrinseca difficoltà di dare ordine a un disordine"
Nota di Lunaria: "Un momento, dice, tutta in calore; aspettate, buone amiche, mettiamo un poco d'ordine ai nostri piaceri, ne possiamo godere soltanto se ce li organizziamo" dice una "ragioniera" Delbène. Perché anche il vizio e la negazione di qualasiasi ordine necessitano per grottesco di avere una propria legge, ordinamento, successione. L'Anti-Ordine Sadiano che risulta essere molto più organizzato burocraticamente di una Società Ordinata.
è singolare (e chi conosce bene de Sade lo sa), che il "sistema di de Sade" si scontri, in se stesso, contemporaneamente, in un'eterna tesi e antitesi, affermazione e negazione.
Tutto in de Sade è numero (e burocrazia): la catalogazione di fruste, posizioni, centimetri di arnesi, orgasmi, persino vittime immolate in un conto aritmetico tanto enorme quanto irrealizzabile alla prova dei fatti: perché le elaborate messinscene delle orgie, gli stessi banchetti pantagruelici, la ripetizione abnorme degli orgasmi, si demoliscono da sé: il corpo umano non può assumere tutte le posizioni contorsioniste; la gola frenetica prima o poi conosce il limite dello stomaco, il pene non può eiaculare per ore e ore con l'intensità che de Sade immagina.
"Parole e idee suscettibili di veloce usura, perché un linguaggio è efficiente in modo inversamente proporzionale al suo abuso."
Perché lo stesso de Sade sa di non poter trasportare nella realtà il suo "numerismo ossessivo", in contrasto con la ricchezza lessicale che utilizza nelle sue descrizioni minuziose a questa o quell'orgia; la frustrazione nasce da quell'impossibilità di adeguare la realtà circostante in cui si è costretti a vivere, alla propria fantasia, frustrazione di ogni vero parafiliaco che si rispetti.
De Sade, Max Stirner: due uomini autori di sistemi utopistici che non hanno alcun bisogno di essere confutati (e - orrore cattoborghese più grande - censurati) perché continuamente affermati e negati da se stessi.
Il Sadista Libertino, L'Unico Stirneriano, personaggi non realizzabili nella realtà per l'incapacità di adeguare la realtà (cause, effetti, ordine, leggi fisiche...) al modello della loro fantasia.
Padroni assoluti delle e nelle loro fantasticherie, ma succubi dei limiti reali. Possono forse Il Feroce Sadista Libertino, il Megalomane Unico Stirneriano, sovvertire le leggi di natura fisiche, chimiche, temporali? Possono forse sovvertire, soggiogare la gravità, il moto cosmico dei pianeti, far sì che quanto avvenuto non sia successo?
(Un pudico Pier Damiani parlerebbe di "Può Dio ridare la verginità perduta?"...)
E, in un certo senso, i personaggi sadiani, con la loro aritmia grottesca e gonfiata, non sono che scimmie che imitano goffamente il presunto Architetto Universale che pure negano:
Negare Dio per la frustrazione di non poterlo essere.
Per concludere, dopo il numerismo ossessivo (e spesso noioso) di de Sade, una breve citazione anche alla sua proverbiale attrazione per il Brutto e il Deforme: l'eroina sadiana Desgranges, senza una mammella, mancante di tre dita, sei denti e un occhio, zoppa, sporca, e che pure, scatena e infiamma tanta libidine sadiana, molto più che non "le verginali fanciulle belle come Venere, tutte gigli e rose"...
"Con il trionfo della virtù tutto muore".
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Una deliziosa apologia dell'Ateismo, che giunge ben gradita ad orecchie lunariali nauseate da sproloqui cristiani!
Da "Juliette ovvero le prosperità del vizio" (Parte I)
"Scrive di furia, per restare nell'eternità" (giudizio di Chateuabriand su Saint-Simon che ben si adatta anche a de Sade)
"Juliette! siamone certe, soltanto dai limiti della nostra mente nasce la chimera di un Dio; infatti, non sapendo a chi attribuire ciò che vediamo, nella totale impossibilità di spiegare gli inintelligibili misteri della natura, noi abbiamo semplicemente situato al di sopra di lei un essere dotato del potere di produrre tutti gli effetti le cui cause ci erano ignote. Appena si immaginò tale abominevole fantasma come creatore della natura, subito fu necessario vederlo anche come creatore del bene e del male."
"Cos'è la ragione? è la facoltà datami dalla natura di decidere in relazione ad un oggetto stabilito e di evitarne un altro, in proporzione alla dose di piacere o di fastidio che tali oggetti mi provocano: calcolo del tutto dipendente dai miei sensi, poichè da essi soltanto ricevo le impressioni comparative che costituiscono il dolore che voglio fuggire o il piacere che devo cercare. La ragione non è altro, come dice Fréret [erudito francese, 1688-1749] che la bilancia con la quale pesiamo gli oggetti e mediante la quale, rimettendo sotto pesi quelli lontano da noi, possiamo conoscere ciò che dobbiamo pensare, dal rapporto che hanno tra di loro, in modo tale che sia sempre l'apparenza del massimo piacere che vinca."
"La progressione intima degli esseri che sono stati successivamente causa ed effetto, ha ben presto stancato la mente di coloro che vogliono a tutti i costi trovare la causa in tutti gli effetti: avvertendo l'esaurimento della loro immaginazione di fronte ad una tale successione di idee, è sembrato loro più semplice risalire subito ad una causa prima che hanno immaginato come causa universale, nei confronti della quale le cause particolari sono effetti e che non è, essa, effetto di alcuna causa. (Nota di Lunaria: i celebri sofismi tomisti del "Motore immobile" e "Causa incausata"...)
Ecco il Dio degli uomini, Juliette; ecco la sciocca chimera della loro fragile immaginazione. Vedi attraverso quale catena di sofismi sono arrivati a crearla e, secondo la definizione particolare che ti ho dato, vedi come tale fantasma, non avendo che un'esistenza oggettiva, non potrebbe esistere al di fuori della mente di coloro che lo considerano, è quindi unico risultato delle esaltazioni del loro cervello.
Eccoti dunque il Dio dei mortali, ecco l'essere abominevole che hanno inventato, nei cui templi hanno fatto scorrere tanto sangue!"
"Qualunque sofisma sostengano i fautori assurdi della divinità chimerica degli uomini, non vi dicono altro se non che non c'è effetto senza causa, ma non vi dimostrano che occorre risalire ad una prima causa eterna, causa universale di tutte le cause particolari, che sia inoltre essa stessa creatrice e indipendente dalle altre cause. Convengo che noi non riusciamo a comprendere il legame, la successione e la progressione di tutte le cause. L'ignoranza di un fatto non è mai però motivo sufficiente per crearsene o determinarne un altro. Coloro che vogliono persuadervi dell'esistenza del loro abominevole Dio osano sfrontatamente dirvi che, dal momento che non possiamo collegare la vera causa agli effetti, occorre che necessariamente ammettiamo la causa universale. Si può fare un ragionamento più sciocco? Come se non fosse meglio confessare la propria ignoranza, invece di sostenere un'assurdità, o come se l'ammissione di tale assurdità divenisse una prova della sua esistenza. Confessare la propria pochezza non è un inconveniente, senza dubbio; l'adozione del fantasma è piena di ostacoli contro cui non faremmo che urtare se ci manteniamo tranquilli, ma dove potremmo spezzarci se permettiamo che le nostre teste si riscaldino: e le chimere accalorano sempre.
Concediamo, se si vuole, un istante, ai nostri antagonisti l'esistenza del vampiro (1) che crea lo loro felicità. Chiedo loro, in tale ipotesi, se la legge, la regola, la volontà mediante la quale Dio guida gli esseri, sono della stessa natura della nostra volontà e della nostra forza, se Dio, nelle stesse circostanze, possa volere o non volere, se la stessa cosa possa piacergli e dispiacergli, se non cambi di avviso, se la legge che lo determina è immutabile. Se è lei che lo guida, egli non fa che eseguire; quindi, non ha alcun potere (...) Se il vostro Dio non è libero, se è costretto ad agire in conseguenza delle leggi che lo dominano, allora è una forza simile al destino, alla fortuna, non influenzabile con i voti, non modificabile con le preghiere, non placabile con le offerte e che è meglio disprezzare in eterno piuttosto che implorare con tanto poco successo. Se poi il vostro esecrabile Dio è più pericoloso, più cattivo e più crudele ancora, e ha nascosto agli uomini ciò che era necessario per la loro felicità, il suo progetto allora non era di renderli felici (Nota di Lunaria: sicuramente il suo progetto non era quello di rendere felici e magnificate nel Divino le donne...); egli non li ama, quindi, non è né giusto, né benefico. Mi sembra che un Dio non debba volere altro se non il possibile, e non è possibile che l'uomo osservi leggi che lo tiranneggiano o che gli sono sconosciute."
(1) Il vampiro succhiava il sangue dei cadaveri. Dio fa scorrere il sangue degli uomini, entrambi, a ben vedere, sono chimerici: è sbagliarsi dare all'uno il nome dell'altro? (Nota dello stesso de Sade)
"Continuiamo. Vi chiedo ora, o deisti, come si comporterà questo Dio, voglio accettarlo per un momento, di fronte a coloro che non hanno alcuna cognizione delle sue leggi. Se Dio punisce l'ignoranza invincibile di coloro ai quali le sue leggi non hanno potuto essere notificate, è ingiusto (nota di Lunaria: e lo sarebbe in ugual modo essendosi fatto solo maschio...); se invece non gliele può spiegare, è incapace."
"Ogni giorno nuovi argomenti di terrore: tali sono gli unici effetti prodotti in noi dall'idea pericolosa di un Dio. è questa solo idea che causa i mali più cocenti della vita dell'uomo; è lei che lo costringe a privarsi dei piaceri più sottili della vita, per il terrore di dispiacere a questo frutto disgustoso di una delirante immaginazione. Occorre dunque, amabile amica, liberarsi al più presto possibile dei terrori che una tale chimera suscita e quindi, senza dubbio, bisogna falciare l'idolo, polverizzarlo con braccio fermo."
"Amiche", ci dice la Durand, "più si studia la natura, più si strappano i suoi segreti, meglio si conosce la sua potenza, è più si è convinti dell'inutilità di un Dio. L'istituzione di tale idolo è la più odiosa e ridicola, la più pericolosa e spregevole di tutte le chimere: favola indegna, nata, in tutti gli uomini dal timore e dalla speranza, ultimo effetto della follia umana." (Parte III)
"Fai attenzione specialmente alla religione, niente ti svierà dalla retta via come i suoi pericolosi suggerimenti; simile all'idra le cui teste rinascono appena le si taglia, essa ti tormenterà incessantemente se non avrai la massima cura di annientarne di continuo i principi. Temo che le stravaganti idee di questo Dio inesistente con cui hanno avvelenato la tua infanzia ritornino a turbare la tua fantasia durante i suoi più eccelsi voli: oh, Juliette, dimenticala, disprezzala, l'idea di questo Dio vano e ridicolo. La sua esistenza è un'ombra che dissipa istantaneamente il più lieve sforzo mentale, e tu non sarai mai tranquilla finché questa odiosa chimera non avrà perduto nei tuoi riguardi tutte le facoltà proprie dell'errore. Nutriti senza sosta delle idee di Spinoza, di Vanini, dell'autore del "Systeme de la Nature", Linneo. Li studieremo, li analizzeremo insieme. Ti ho promesso profonde discussioni su questo argomento, manterrò la parola: entrambe ci sazieremo dello studio di quelle sapienti idee. Se avrai ancora dubbi, me li comunicherai, ti tranquillizzerò: fermamente convinta come me, mi imiterai ben presto, e, come me non pronuncerai più il nome di questo Dio infame se non per bestemmiarlo e odiarlo. L'idea di una tale chimera è, confesso, il solo torto che non posso perdonare all'uomo. Lo posso scusare di tutte le sue deviazioni, lo compiango per tutte le sue debolezze, ma non posso perdonargli la costruzione di un simile mostro, non gli perdono di essersi forgiato da solo i ferri religiosi che lo hanno tanto violentemente impastoiato e di essere venuto a presentare egli stesso il collo al giogo vergognoso che la sua stoltezza aveva preparato. Non la smetterei, Juliette, se dovessi abbandonarmi a tutto l'orrore che mi ispira l'esecrabile sistema dell'esistenza di un tale Dio: il mio sangue ribolle al suo solo nome. Mi sembra di vedere intorno a me, quando lo sento pronunciare, le ombre palpitanti di tutti i disgraziati che tale abominevole idea ha distrutto sulla superficie del globo. Esse mi invocano, mi scongiurano di adoperare quante forze, quanto talento abbia in me per estirpare dal cervello dei miei simili l'idea del disgustoso fantasma che li fece morire sulla terra."
"Due classi di individui devono adottare la religione: dapprima quelli che tali assurdità fanno prosperare, poi gli imbecilli che credono sempre a tutto quanto si dice loro senza approfondire mai niente. Sfido però a sostenere che un individuo ragionevole e intelligente possa affermare che crede in buona fede all'atrocità della religione."
AGGIUNGO QUI UN APPROFONDIMENTO
tratto da
"Non ci sono altro che cadaveri insanguinati, neonati strappati dalle braccia delle madri, fanciulle sgozzate alla fine di un'orgia, coppe riempite di sangue e vino, torture crudelissime; si accendono caldaie, si spogliano uomini della loro pelle fumante, si grida, si bestemmia, e questo ad ogni pagina, a ogni riga, sempre, sempre (*). Oh! che infaticabile scellerato! Nel suo primo libro de Sade ci mostra una povera fanciulla, ormai distrutta, perduta, insozzata, intontita dalle nerbate, condotta da mostri umani, di sotterraneo in sotterraneo, di cimitero in cimitero, picchiata, distrutta, divorata a morsi, bollata con il marchio dell'infamia, schiacciata... E quando l'autore non sa più che crimine inventare, quando non ne può più di incesti e mostruosità, quando è là, ansimante, sui cadaveri che ha pugnalato e violato, quando non c'è più una chiesa che non abbia profanato, non un bambino che non abbia immolato alla sua frenesia, non un pensiero morale su cui non abbia gettato le immondizie del suo pensiero e della sua parola, quest'uomo infine si ferma, si guarda, si sorride, non si fa paura. Anzi!", scriveva di de Sade Jules Janin in un articolo del 1831 sulla "Justine o le sventure della virtù" di Donatien Alphonse François marchese de Sade, "opera incomparabilmente più nera di ogni altra" che inaugura il filone del realismo nero francese.
Il commento di Janin ha il pregio di riassumere in breve la trama del libro.
Justine è virtuosa, e proprio questo suo essere virtuosa è il suo delitto.
La virtù non paga, anzi la stessa Natura si incarica di punire la virtuosa Justine (dopo che ci si sono messi tutti: nobili, preti, briganti, mendicanti...), uccidendola con un fulmine proprio quando sembra essere giunta al termine del suo lungo calvario.
"Perché la legge della Natura è la distruzione e quindi chi distrugge le obbedisce."
I malvagi che uccidono, violentano, irridono le più sacre leggi degli uomini sono "secondo natura" (**) mentre i virtuosi, i buoni, i pii sono contro di essa.
Per de Sade tutto è Male e tutto è opera di Satana, o meglio, niente esiste, visto che de Sade era ateo e non odiava "dio", chimera inesistente, ma "l'idea di dio", ideata dall'uomo.
Quale che sia il giudizio sull'opera di Sade, non bisogna dimenticare che attraverso "Justine" o "Le 120 giornate di Sodoma", i fermenti del Nero, vivificati dal razionalismo antireligioso portato alle sue estreme conseguenze (ovvero la blasfemia. Nota di Lunaria) entrano definitivamente nella cultura moderna e concorrono a formare quel clima spirituale da cui nascerà il surrealismo e tutta la letteratura moderna (tra cui lo Splatterpunk http://intervistemetal.blogspot.it/2018/01/introduzione-allo-splatterpunk.html . Nota di Lunaria)
Discepoli letterari di de Sade furono Pétrus Borel, autore di "Madame Putiphar" e "Champavert, racconti immorali", Fédéric Soulié ("Le memorie del Diavolo"), Charles Nodier, autore di "Mademoiselle de Marsan" e "Ines de las Sierras", Charles Baudelaire e persino Sue, Dumas, Hugo, Balzac, al quale vennero sequestrati drammi neri quali "Il mostro", "L'incredulo", "Il dannato", "Il vicario delle Ardenne".
(*) Nota di Lunaria: niente che non sia, in realtà, già presente nel cristianesimo o nei culti mesoamericani; solo che nel cristianesimo o nel culto a Xipe Totec "quelle cose splatter" vengono caricate di sacro e misticismo e perciò appaiono "edificanti". Anche nella bibbia mosè sgozza donne e bambini e dà ordine ai suoi soldati di portarsi via le vergini da stuprare (Numeri 31), Iefte sacrifica la figlia a Yahvè, a Micol vengono portati come dote duecento prepuzi evirati freschifreschi e belli sanguinolenti dai nemici in battaglia, (1 Sam 18, 22-29) la concubina del Levita viene stuprata da una gang e poi smembrata e mandata, pezzo per pezzo, a tutte le tribù di Israele. (Giudici 19:25- 19:27-28-29-30). Solo un ipocrita potrebbe scandalizzarsi per la lettura di de Sade e non dire nulla, ANZI GIUSTIFICARE, la bibbia che riporta le stesse identiche cose; con una differenza: che la "Justine" di de Sade resta un'opera di fantasia, verniciata di nero e ferocemente parodistica anche di quella "demenza religiosa" che in altri contesti avrebbe applaudito alle stesse cose chiamandole "a maggior gloria di Dio" o "volontà di Dio", perché di fatto la bibbia viene "considerata parola di Dio" e perciò "eterna e vera". Facevo già notare che l'opera di de Sade funziona per paradosso, e stranamente tanto più è esagerata e grottesca e tanto più è effettivamente comica, di un umorismo ferocissimo, nella sua descrizione iperrealista gonfiata all'eccesso, e perciò falsa, perché contraddice la realtà: non fosse altro per il numero abnorme di "eiaculazioni" che si susseguono frenetiche, accumulate fino all'eccesso e che nessun uomo reale saprebbe mai ottenere. Per inciso, si potrebbe far notare che de Sade si è divertito un mondo a dare vita a questa "fanciulla cristiana esemplare"... di un'ingenuità talmente imbarazzante da risultare quasi demente e mentecatta: non solo viene ripetutamente ingannata e oltraggiata, ma anche quando ne ha la possibilità o non scappa o si fida nuovamente dell'aguzzino di turno, disposta ad aiutarlo, a credergli, a "porgergli ancora l'altra guancia e a perdonare settanta volte sette".
Difatti, perfettamente concorde alla crassa parodia della "devozione religiosa, del porgere l'altra guancia, dell'amare il nemico" che l'Autore aveva in mente, l'opera si conclude con un epilogo perfettamente sensato, nella sua stravaganza: Justine muore proprio in modo che più "divinamente ispirato" non si può: viene fulminata da un fulmine.
Più che non punire la virtù sembra che l'autore abbia voluto fustigare l'imbecillità umana, per giunta quasi sempre nutrita di dogmi religiosi; e si spiegano così le numerose dissertazioni filosofiche e anti-cristiane che costellano il libro.
(**) Curiosamente, il comportamento umano più che "in armonia con i primati" è in armonia con il sadismo sessuale tipico degli insetti, dei ragni e dei vermi, che mettono in atto tutti comportamenti sadico-sessuali tipici anche dei serial killer, come mutilazioni o cannibalismo.
Simone de Beauvoir
Per una versione completamente aggiornata, vedi: https://intervistemetal.blogspot.com/2020/03/simone-de-beauvoir-con-contorno-di.html
Jean Paul Sartre
Sartre, commento aggiornato 2024
Info tratte da
Scrivere. Perché scrivere, per la gloria, per la ricchezza, per una "missione" che ci si sente dentro? No, scrivere, semplicemente:
"...scrivo sempre. Che c'è da fare di diverso?... è la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n'è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell'uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine."
Scrivere per specchiarsi, dunque.
Per ricercare nell'opera, nelle parole scritte, il proprio volto di uomo, il senso della propria vita, il significato delle cose.
Per null'altro vale la pena di accingersi al duro mestiere dello scrittore.
Non molte tempo dopo aver esposto nel suo lavoro più recente ("Le Parole") questa specie di compendio della sua posizione di fronte alla letteratura , Jean-Paul Sartre compì il gesto per il quale tornò, come nei primi anni del dopoguerra, ad essere l'autore più "chiacchierato", il filosofo scrittore più discusso: rifiutò il Premio Nobel 1964 per la letteratura.
Non in segno di spregio per questo alto onore, ma per rigida coerenza con le proprie idee.
Il "gran rifiuto" di Sartre fece parlare e sparlare tutto il mondo. Ma una constatazione è unanime.
Di Sartre si può dire tutto, si può criticarlo, non amarlo, ma non si può rimproverargli di non essere sempre stato se stesso, di non aver pagato di persona, con un suo tormento interiore, il prezzo di quello che andava dicendo e scrivendo.
Ma chi è Sartre? Il grande pubblico lo conosce come il padre dell'Esistenzialismo, il vate di quei personaggi che dopo la fine della guerra, specialmente a Parigi, manifestarono la loro volontà di rifiutare la società dell'uomo attuale e si abbandonarono a manifestazioni vagamente esibizionistiche: abiti trasandati, ritrovi notturni negli scantinati bar (le famose "caves") del quartiere parigino di St. Germain-des-Prés, angoscia vera o falsa di fronte a ogni scelta che impegnasse la loro libertà e la loro responsabilità.
Ma Sartre stesso rifiuta la paternità filosofica del movimento esistenzialista.
Ma allora, chi è Sartre veramente? La sua vita non è sufficiente per farcelo capire.
Nato a Parigi nel 1905 da una famiglia alsaziana, rimase orfano di padre e venne allevato dal nonno materno, zio del famoso dottor Albert Schweitzer che andò a spendere la propria vita fra i malati africani di Lambaréné.
Fin da bambino, Sartre lesse di tutto, dai libri per ragazzi ai drammi di Corneille e i romanzi di Verne.
Prese la laurea in filosofia, prestò servizio militare, cominciò a pubblicare le sue prime opere.
Una vita regolare, in apparenza. Ma in realtà la storia di Sartre è tutta interiore: è la storia di un uomo e di tutta la società europea vissuta tra le due guerre.
Non si può capire Sartre senza approfondire parallelamente alle sue opere letterarie e teatrali, il suo pensiero filosofico.
I temi delle sue opere sono la solitudine, la libertà, la responsabilità dell'uomo di fronte a null'altro che alla sua coscienza personale.
Il compito che Sartre si accolla è quello di "chiudere l'uomo dentro l'uomo" cioè di sottometterlo a una responsabilità personale, autonoma.
Una responsabilità che è libera da legami con doveri superiori, con una fede, con ideali astratti ma che nasce, vive, si esaurisce tutta entro i confini della coscienza individuale.
La preponderanza di tali temi della solitudine, della libertà, della responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso non è certo un'invenzione di Sartre; la generazione tra le due guerre mondiali sperimentò drammaticamente la più dura esperienza: quella di sentirsi "sradicati", privati del conforto di quella fede religiosa o filosofica che aveva consolato gli uomini della generazione precedente; l'esperienza di sentirsi in completa solitudine dentro un mondo che appare ora ostile, ore inutile, ora inerte
(Nota di Lunaria: oggigiorno appare direttamente putrefatto)
Altri grandi autori vissero questo dramma: Gide, Unamuno, Bernanos, Chesterton, Camus e altri (aggiungo anche Cioran. Nota di Lunaria)
Ma la soluzione che Sartre ne diede è unica, radicale, e, per molti, convincente, tanto che essa determinò il modo di vivere di gran parte della generazione successiva.
L'Angoscia, la Nausea e la Responsabilità
Mentre andava approfondendo il suo pensiero filosofico, Sartre sentiva affiorare nell'animo le domande fondamentali: perché si vive, perché siamo soli, perché sono qui ora, con il mio fascio di problemi, di esigenze, di aspirazioni, di cognizioni?
Tutto il pensiero di Sartre affonda le proprie radici in questa implacabile e lucidissima indagine della propria esistenza.
E questa ossessiva indagine diviene materia per la prima grande opera letteraria di Sartre: "La Nausea" (1938)
Il protagonista non è altri che lo stesso scrittore che descrive il maturare delle proprie convinzioni.
L'esperienza del protagonista parte da quella solitudine di cui abbiamo parlato; una solitudine che non significa quiete, bensì dramma, lotta interiore, analisi continua e spietata del proprio io.
Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto.
Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita.
Esiste una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità.
Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì tragico, altri assurdo, altri angoscioso e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea
(Nota di Lunaria: che è molto più che un romanzo di Sartre, ma un'esperienza pre-mortem...)
Per essere più precisi, per Sartre, la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito.
Così il protagonista della Nausea rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore, e tutto si mette a ondeggiare... ecco la nausea"
Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto. Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita. Esiste insomma una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità.
Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì "tragico", altri "assurdo", altri "angoscioso" e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea.
Per essere più precisi, per Sartre la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso, non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito.
Così il protagonista de "La Nausea" rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore e tutto si mette a ondeggiare... ecco la Nausea"
Siamo al punto centrale non solo del romanzo, ma potremmo dire della storia spirituale dell'uomo-Sartre.
L'essere niente, dice Sartre, non riduce la Nausea, anzi la rende più drammatica, perché l'uomo non è inerte come un sasso, come una pianta. L'uomo ha una coscienza, la quale avverte sì la Nausea, ma manifesta anche l'esistenza di una libertà e di una responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso:
"Io non sono niente, non ho niente. Inseparabile dal mondo come la luce e tuttavia esiliato, come la luce, scivolo sulla superficie delle pietre e dell'acqua, senza che niente, mai, mi agganci o mi insabbi. Fuori. Fuori. Fuori del mondo, fuori del passato, fuori di me stesso: la libertà è l'esilio ed io sono condannato ad essere libero."
La coscienza umana è libera; solo la coscienza può dare una giustificazione a questo nauseante "esserci" senza senso:
"Una volta che ci si è trovati... non si tratta più di perdersi: non più abisso, non più notte; l'uomo si porta ovunque con sé; dovunque sia, egli illumina, non vede che ciò che illumina, è lui a decidere del significato delle cose."
Il discorso di Sartre, iniziato nel 1938, viene continuato dai racconti e dai romanzi successivi ("Il Muro" 1939, "Il Cammino della Libertà" 1945) e dalle opere teatrali ("Le Mosche" 1943, "A porte chiuse" 1944, "Morti senza sepoltura" 1946, "Le Mani sporche" 1948) e non si conclude con un pessimistico rifiuto di esistere ma con un serio impegno di vivere e di costruire.
In che senso?
Evitando di ingannarsi più o meno volontariamente.
Per essere uomini occorre spogliare l'uomo dai conformismi, e porlo senza pietà di fronte alla sua vera natura e ai problemi della sua coscienza.
Per esempio, ecco in qual modo ci si può illudere, e in che senso valga la responsabilità sincera, l'impegno dell'uomo che è passato attraverso la Nausea e vuole dare un significato alla sua esistenza.
Il protagonista di questo brano è al ristorante, negli anni della guerra civile spagnola e osserva un compagno a tavola:
"le bistecche sono sulla tavola: una per lui, una per me. Lui ha il diritto di assaporare la sua, ha il diritto di dilaniarla con i suoi bei denti bianchi, ha il diritto di guardare la graziosa figliola alla sua sinistra... io no.
Se mangio, cento spagnoli morti mi saltano alla gola.
Io non ho pagato."
Il primo, quello che mangia, è uno di quelli che Sartre chiama "i salauds", gli "sporcaccioni", i "porci": una di quelle persone che si convincono di credere in valori assoluti, si ritengono in diritto di vivere come meglio piace a loro e non vogliono convincersi che questa è tutta una mascheratura, un autoinganno per evitare l'angoscia dell'esistenza.
L'altro è come Sartre stesso, cioè uno che ha scoperto il non-senso delle cose, che ha sofferto la tensione della propria responsabilità, quindi un uomo cosciente, costretto dalla sua libertà e dalla sua responsabilità a non ignorare le sofferenze altrui.
Ed ecco il punto di arrivo della storia spirituale di Sartre.
Occorre pagare, pagare di persona per vivere.
Occorre sentire dentro di sé i dolori dei "cento spagnoli morti", cioè gli affanni, le lotte degli altri.
Questo vuol dire agire con un atto responsabile e sincero. Questa, per Sartre, è la moralità, l'unica salvezza possibile. Siamo alla conclusione della sua storia spirituale: Sartre ha pagato di persona perché ha sempre vissuto ciò che ha affermato.
Non si fa fatica, quindi, a comprendere le ragioni del suo impegno in politica, in letteratura, in ogni campo.
è un amore, il suo, per l'uomo, per tutti gli uomini.
Ed è indubbiamente sincero, anche se chi crede in una fede religiosa o in un ideale filosofico o morale non può condividerlo.
Ma la passione di Sartre per l'uomo e la sua storia disperata non manca di una tragica grandezza, forse la grandezza dell'illusione.
**********
Questo fu il mio secondo scrittarello di Filosofia, dopo quello di Cioran; riletto ora, con quello che so ora, mi sembra un piccolo pulcino appena nato; all'epoca ero ancora così gracilina, mi mancavano ancora tante basi, ma ero piena di passione... :D
Così lo ripubblico, lasciandolo tale e quale ad allora, anche se molto avrei da aggiungere, e molto avrei da collegare, nei rimandi e nelle citazioni... ma lo lascio così, nel suo essere un piccolo schemino scritto da un'autodidatta.
Non è un saggio, non ha pretesa di esserlo, è uno scrittarello introduttivo. Non credo che a Sartre dia fastidio! :D
Così lo ripubblico, lasciandolo tale e quale ad allora, anche se molto avrei da aggiungere, e molto avrei da collegare, nei rimandi e nelle citazioni... ma lo lascio così, nel suo essere un piccolo schemino scritto da un'autodidatta.
Non è un saggio, non ha pretesa di esserlo, è uno scrittarello introduttivo. Non credo che a Sartre dia fastidio! :D
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Pubblico un mio "studio critico" su Jean Paul Sartre, mio grande idolo filosofico che spero di omaggiare con questo articolo.
Come per Cioran, la mia intenzione non è quella di stilare un "noioso" elenco sterile di parole e fatti, preferisco far parlare il mio cuore e i miei sentimenti!
Spero quindi che possiate percepire delle emozioni che vi spingano a riflettere sui perché della vita, magari approfondendo proprio questo capisaldo!
Per un commento esaustivo a Sartre, vedere "Storia della filosofia"
di Franco Restaino volume quarto, tomo secondo.
Ottimo commento su Sartre e analisi eccellente delle principali dottrine filosofiche del '900
Nato il 21 giugno 1905 si può affermare che influenzò quasi tutto il '900. Nel '33 si reca a Berlino dove apprende i fondamenti della Fenomenologia: le sue prime opere riflettono la genialità degli insegnamenti di Husserl.
Catturato dai nazisti nel 1940, riesce a fuggire; questo evento incide profondamente sul suo pensiero, tanto che sebbene ateo, non ha mai smesso di predicare l'impegno alla vita, il suo impegno politico (da notare come la sua compagna Simone de Beauvoir fece altrettanto in campo femminista) l'impegno nel costruirsi il proprio senso, con le proprie forze.
A torto, lo si accusa di tetraggine e depressione, eppure nel manifesto ideologico "L'Esistenzialismo è un Umanismo"(1946) scrive:
"L'uomo sarà innanzitutto tutto quello che avrà progettato di essere... L'uomo è responsabile di quello che è."
Frasi da depresso?
Al contrario, frasi che denotano una grande ammirazione per la capacità costruttiva dell'intelletto umano.
Sartre fa quindi paura solo a chi non si assume mai le proprie responsabilità, né vuole costruirsi da sé il proprio futuro.
Con l'io penso di Cartesio, l'uomo raggiunge la coscienza di sé, anche e soprattutto della propria solitudine.
Siamo quindi liberi, sì, ma condannati a questa libertà, condannati a fare scelte più o meno angoscianti, per tutta la durata della vita.
L'eco di Heidegger è forte in Sartre:
"Una volta gettato nel mondo l'uomo è responsabile di tutto quanto fa."
e ancora:
"Non posso contare su niente... Non c'è realtà che nell'azione".
Sono le due chiavi per accedere al pensiero di Sartre, un pensiero
che non è apatico, non è atarassico e statico, ma dinamico e creativo.
A mio parere si può vedere un eco di Hegel:
Sensazione-percezione-intelletto, e dramma dell'Autocoscienza
che culmina nella "Nausea per la vita".
Con l'Esistenzialismo sartriano abbiamo la progressiva costruzione
della coscienza individuale, del nostro io, di fronte all'angoscia
delle scelte e della solitudine, (che Dio esista o no, non importa: ma se esiste ci ha abbandonato) dell'"essere gettati"
(il Dasein heideggeriano).
Questa presa di coscienza, a torto ritenuta pessimista, è l'unica possibile.
Come si può credere al "questo è il migliore dei mondi possibili" di Leibniz, al bene nel mondo, se tutti noi sperimentiamo il dolore?
Certo, è consolante rifugiarsi in sofismi infantili, se serve a stare meglio, al "la vita è meravigliosa e va tutelata", "il dono più grande è l'amore", "Dio ci ama"... ma se apriamo gli occhi, e Sartre ci invita a farlo, e subito, vediamo che nell'esistenza prevale il dolore o in termini più impersonali, il Nulla.
Sospendiamo il giudizio escatologico o se, dopo la morte, ci aspetti o no una ricompensa.
Nel qui e nell'ora esistenziale non ha senso aspettarsi ricompense ultraterrene, ne far affidamento al "domani farò": è reale solo ciò che c'è ora.
Possiamo quasi paragonare Sartre a un angelo caduto che ci dona la luce, il lume, della ragione e della consapevolezza, esorcizzate dalle melense e stucchevoli credenze ottimiste.
La vita acquista il senso che noi gli diamo, ma anche se non gli diamo un senso, scegliamo di non scegliere: non è possibile non scegliere.
Sartre ci invita, ci esorta a vivere al momento, a farci carico di noi stessi del nostro "divenire", a non avere rimpianti.
"L'Esistenzialismo è un ottimismo, è una dottrina d'azione."
E la sua Nausea esistenziale è salutare, perché ci aiuta a prendere coscienza del dolore, distruggendo le illusioni e i sentimentalismi.
Accettando il dolore come inevitabile (ecco un eco di Schopenhauer!) forse riusciremo anche a combatterlo, A GUARDARLO IN FACCIA, anche se è impossibile sconfiggerlo, perché il dolore nullifica l'essere dell'uomo, nega il divenire e ci pone nella condizione di far sì che quanto abbiamo sofferto non possa mai più essere cancellato.
è falso e menzognero sostenere il contrario!
"L'uomo si presenta come un essere che fa apparire il Nulla nel mondo."
"L'uomo è l'essere per cui il Nulla viene al mondo."
"è nell'angoscia che l'uomo prende coscienza della sua libertà . L'angoscia è il modo d'essere della libertà come coscienza d'essere."
"L'angoscia sono io."
Come riuscire ad essere liberi dal proprio passato?
Riporto anche la mia recensione sulla "Nausea"
Capisaldo dell'Esistenzialismo francese, ottimo filosofo, pieno di
fiducia (per quanto ne dicano i detrattori..) sulle capacità creativa dell'essere umano di costruirsi il proprio senso dell'esistenza, si dimostra anche brillante romanziere. "La Nausea" - il titolo dice tutto - è il disagio del protagonista (forse lo stesso Sartre?) Antoine Roquentin, che attraverso i suoi monologhi trascritti su fogli di diario, ci conduce in una bieca palude dove nausea, noia, vuoto ci travolgono.
Potrebbe quasi essere uno Zeno Cosini più giovanile, quindi più vicino a noi. Perché questo romanzo - del 1938 -
racconta non solo il disagio di un ragazzo del '38 ma anche il tedio che colpisce tuttora noi "ragazzi del 2000".
"Mi è accaduto qualcosa,
non posso più dubitarne... è sorta in me come una malattia... si è
insinuata a poco a poco... ecco che ora si espande..."
"Le note... corrono, s'inseguono, mi piacerebbe trattenerne una, tra le dita... devo accettare la loro morte; devo perfino volerla."
"La Nausea è rimasta laggiù, nella luce gialla. Sono felice, questo freddo è così puro, così pura è questa notte; che non sia io stesso un'onda di aria gelata? Non avere né sangue, né linfa né carne... scorrere in questo lungo canale verso quel pallore, laggiù... Non essere altro che un po' di freddo."
"Vado a caso, vuoto e calmo sotto un cielo inutilizzato."
Ma Sartre non ci ha lasciati in balia del Nulla, che pure
corrode la vita umana... ecco che con la sua filosofia reale, ci ha trasmesso la capacità di credere che se la vita non ha senso a priori e siamo condannati ad essere liberi, spetta a noi soli crearci un senso. Coscienti di questo, coscienti che il dolore ci accompagnerà sempre, il Freddo non prevarrà. L'uomo è libero, è libertà, ma è condannato a questa libertà, a questa enorme solitudine, a questo libero arbitrio...
Rispetto a veri e propri profeti del Nulla (auto)distruttivo - un Caraco, un Cioran - Sartre ha demolito tutto ma per poter ricostruire qualcosa.
Riporto il mio concetto preferito di Sartre!
LO SGUARDO DELL' ALTRO
L'altro è, in Sartre, vissuto come antagonista ("l'inferno sono gli altri" scrive Sartre), in quanto relativizzando il mio punto
di vista limita la mia libertà: il suo "sguardo" mi oggettiva, mi reifica, murandomi nelle sue stesse idee, nei suoi pensieri, nei quali io vengo solidificato, detenuto, dalle quali non posso evadere, sulle quali non ho potere.
Tuttavia lo sguardo dell'altro, oltre che perturbante, è la garanzia della mia esistenza, la testimonianza che non sono una nullità.
Scrive Sartre ne "Il rinvio": "Che angoscia scoprire quello sguardo come un centro universale dal quale non posso evadere; ma che riposo, anche! So infatti di essere. Trasformo quel penso dunque sono e dico mi si vede dunque sono, colui che mi vede mi fa essere: sono come egli mi vede."
***
Sartre e Camus nel commento di Desalmand
Jean Paul Sartre è la figura di spicco dell'Esistenzialismo Ateo. Posta fin dall'inizio l'assenza di Dio, si tratta di rispondere alla domanda "che fare?"; su che cosa basarsi per stabilire una linea di condotta meditata? Visto che i valori non scendono più giù dal cielo, dove trovarli? La risposta è semplice: in se stessi.
Per Sartre, l'uomo è l'essere attraverso il quale i valori vengono al mondo. Ognuno deve assumere la sua libertà. Per Sartre il Bene è accettarsi come un essere libero, responsabile di ciò che la storia ha fatto di lui. Il Male è fuggire da questa responsabilità, preferendo un destino subito a un destino scelto.
Quest'idea di un uomo che rifiuta la tutela degli Dei, e perciò diventa responsabile, appare in molti personaggi sartriani e specialmente in Oreste, personaggio centrale delle "Mosche" (che qui si rivolge a Giove):
"Straniero a me stesso, lo so. Fuori natura, contro natura, senza scuse, senza ricorrere a niente altro che a me. Ma io non ritornerò sotto la tua legge: sono condannato a non avere altra legge al di fuori della mia. (*) Io non ritornerò alla tua natura: vi sono tracciati mille percorsi che conducono verso di te, ma io posso seguire solo il mio percorso. Perchè io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino."
(*) Nota di Lunaria: si ricordi il parallelo con Schiller nei "Masnadieri" (1781):
"Comunque tu sia, Indicibile Eternità,
solo questo mio Io resta fedele... comunque tu sia,
porterò con me solo me stesso.
Le cose esteriori sono solo l'apparenza dell'uomo.
IO SONO IL MIO CIELO E IL MIO INFERNO"
Oltre che col Satana Miltoniano:
"Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno;
e nell'abisso più fondo un altro abisso"
"La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso;"
Nota di Lunaria: Probabilmente, un sartreaismo estremo sfocerebbe nella disperazione, se non ad un vivere arido. Tuttavia, è possibile sublimare concetti come "bisogno di infinito, di conforto", l'anelito all'Infinito, al Metafisico, al Sehnsucht, nella solidarietà (Sorellanza...) o nell'Arte. Arte diventa contemplazione del Bello, della scintilla "spirituale" nell'essere umano, che crea infiniti universi, con la sua fantasia. Non abbiamo bisogno di un dio, men che meno maschile, per nobilitare l'esistenza umana. Basta l'Arte a 360 gradi.
Sartre si avvicina alle tesi di Marx sulla religione, concepita come un'illusione alienante, ma il suo ateismo non si limita a questo. è metafisico. L'idea di un Dio artigiano è respinta, perché l'uomo non può essere considerato come un automa, concepito come un ingegnere. All'origine (come nella testa di un ingegnere che concepisce un automa) non c'è una natura umana, una essenza di origine trascendente, di cui l'esistenza degli individui sarebbe solo uno sviluppo. All'opposto l'esistenza precede l'essenza: ciò a cui si riconduce un individuo, la sua essenza, è determinato solo dalla sua esistenza, dalla somma dei suoi atti (supponendo di poterli conoscere tutti), cioè solo il giorno in cui sarà possibile un'addizione, vale a dire, il giorno della sua morte.
"L'uomo, senza alcun appoggio e senza alcun soccorso, è condannato in ogni istante a inventare l'uomo"
Il punto di partenza di Albert Camus è agnostico piuttosto che ateo. In un certo periodo aveva immaginato di attribuire come sottotitolo al "Malentendu": "Dio non risponde".
Il discorso dell'assurdo si ricollega a quel silenzio. (*)
L'assurdo non esiste in sé. Non è neppure possibile dire che il mondo è assurdo. (**) Esiste solo, senza alcun dubbio, il "sentimento dell'assurdo", che nasce da un appello senza risposta:
"Dicevo che il mondo è assurdo (...) L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame. Li sigilla l'uno all'altro come solo l'odio può inchiodare tra loro gli esseri."
Che comportamento adottare a partire dalla tabula rasa del Nichilismo? (Nota di Lunaria: stranamente, il più bel libro sul Nulla, che ho letto, è proprio stato scritto da un cristiano: Sergio Quinzio. Certamente, non un cristiano tutto pic nic e gite con l'oratorio, si intende...)
"Nella più profonda oscurità del Nichilismo, ho cercato soltanto motivi per superarlo. E comunque non per virtù, né per una rara elevazione dell'anima, ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza."
Da questa assenza di Dio e dunque dall'assenza di una prospettiva oltre la morte, deriva un premio maggiore per le gioie che ci vengono offerte su questa terra. L'epigrafe de "Il Mito di Sisifo", ispirata al poeta greco Pindaro, non è posta a caso:
"Anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esplora il campo del possibile."
UN COMMENTO A SARTRE
«Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione.» «Il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.» Queste le desolate riflessioni di Antoine Roquentin, protagonista della Nausea. Nelle sue prime opere, Sartre descrive l'essere umano, messo quotidianamente a confronto con la minaccia del nulla, con l'angoscioso privilegio della libertà, con l'imprescindibile bisogno di progettualità, racchiuso nei limiti che il corpo, il tempo, gli altri, la morte gli impongono. La condizione umana comporta un prezzo di sofferenza che non ha senso, né ragione alcuna. Per viltà, gli uomini, nella loro maggioranza, occultano le proprie miserie, le proprie angosce, si mascherano di fronte a se stessi e agli altri, preferiscono vivere "in malafede"; al contrario per Sartre la dignità umana sta proprio nell'autenticità, che non può prescindere dal riconoscimento del nulla, della negatività, della morte. È questo, anzi, il presupposto della libertà che quindi è scelta consapevole
del proprio destino, accettazione delle proprie responsabilità profonde, e si contrappone a quello che egli definisce lo "spirito di serietà": l'uomo non può semplicemente adeguarsi a valori,
morali o religiosi, che gli vengono dati dall'esterno, e assumere così dei "ruoli" che lo imprigionano, ma deve percorrere un difficile cammino per scoprire la propria autenticità e quindi la propria libertà. Certo, questi temi, queste suggestioni non caratterizzano solo Sartre: sono presenti nella contemporanea
filosofia tedesca, che egli del resto ben conosceva, e costituiscono il terreno comune anche di molti intellettuali e scrittori francesi che vissero con intensità, ma anche con grande incertezza sul futuro, gli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale: da Nizan a Camus, da Merleau-Ponty alla
stessa Simone de Beauvoir. Sartre ebbe la caratteristica di trattarli sistematicamente, filosoficamente e, al tempo stesso, di "incarnarli" in personaggi che divennero ben presto dei simboli,
almeno per la sua generazione. (dal commento introduttivo di Giorgio Monicelli)
Per Sartre, l'uomo è l'essere attraverso il quale i valori vengono al mondo. Ognuno deve assumere la sua libertà. Per Sartre il Bene è accettarsi come un essere libero, responsabile di ciò che la storia ha fatto di lui. Il Male è fuggire da questa responsabilità, preferendo un destino subito a un destino scelto.
Quest'idea di un uomo che rifiuta la tutela degli Dei, e perciò diventa responsabile, appare in molti personaggi sartriani e specialmente in Oreste, personaggio centrale delle "Mosche" (che qui si rivolge a Giove):
"Straniero a me stesso, lo so. Fuori natura, contro natura, senza scuse, senza ricorrere a niente altro che a me. Ma io non ritornerò sotto la tua legge: sono condannato a non avere altra legge al di fuori della mia. (*) Io non ritornerò alla tua natura: vi sono tracciati mille percorsi che conducono verso di te, ma io posso seguire solo il mio percorso. Perchè io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino."
(*) Nota di Lunaria: si ricordi il parallelo con Schiller nei "Masnadieri" (1781):
"Comunque tu sia, Indicibile Eternità,
solo questo mio Io resta fedele... comunque tu sia,
porterò con me solo me stesso.
Le cose esteriori sono solo l'apparenza dell'uomo.
IO SONO IL MIO CIELO E IL MIO INFERNO"
Oltre che col Satana Miltoniano:
"Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno;
e nell'abisso più fondo un altro abisso"
"La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso;"
Nota di Lunaria: Probabilmente, un sartreaismo estremo sfocerebbe nella disperazione, se non ad un vivere arido. Tuttavia, è possibile sublimare concetti come "bisogno di infinito, di conforto", l'anelito all'Infinito, al Metafisico, al Sehnsucht, nella solidarietà (Sorellanza...) o nell'Arte. Arte diventa contemplazione del Bello, della scintilla "spirituale" nell'essere umano, che crea infiniti universi, con la sua fantasia. Non abbiamo bisogno di un dio, men che meno maschile, per nobilitare l'esistenza umana. Basta l'Arte a 360 gradi.
Sartre si avvicina alle tesi di Marx sulla religione, concepita come un'illusione alienante, ma il suo ateismo non si limita a questo. è metafisico. L'idea di un Dio artigiano è respinta, perché l'uomo non può essere considerato come un automa, concepito come un ingegnere. All'origine (come nella testa di un ingegnere che concepisce un automa) non c'è una natura umana, una essenza di origine trascendente, di cui l'esistenza degli individui sarebbe solo uno sviluppo. All'opposto l'esistenza precede l'essenza: ciò a cui si riconduce un individuo, la sua essenza, è determinato solo dalla sua esistenza, dalla somma dei suoi atti (supponendo di poterli conoscere tutti), cioè solo il giorno in cui sarà possibile un'addizione, vale a dire, il giorno della sua morte.
"L'uomo, senza alcun appoggio e senza alcun soccorso, è condannato in ogni istante a inventare l'uomo"
Il punto di partenza di Albert Camus è agnostico piuttosto che ateo. In un certo periodo aveva immaginato di attribuire come sottotitolo al "Malentendu": "Dio non risponde".
Il discorso dell'assurdo si ricollega a quel silenzio. (*)
L'assurdo non esiste in sé. Non è neppure possibile dire che il mondo è assurdo. (**) Esiste solo, senza alcun dubbio, il "sentimento dell'assurdo", che nasce da un appello senza risposta:
"Dicevo che il mondo è assurdo (...) L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame. Li sigilla l'uno all'altro come solo l'odio può inchiodare tra loro gli esseri."
(*) Una Mary Daly potrebbe far notare che più che il silenzio di Dio, ad essere problematica e di limite, è la sua virilità.
(**) Sulla giustificazione della "Madre Natura Matrigna" che provoca "male" a suo capriccio, si veda de Sade e la sua concezione di "economia dell'universo" esposta nel "Justine"; il male è necessario al bene, il vizio alla virtù. Catastrofi naturali - e persino le lotte tra individui - servono a questo grande "motore naturale" per muoversi e continuare a farlo.
Che comportamento adottare a partire dalla tabula rasa del Nichilismo? (Nota di Lunaria: stranamente, il più bel libro sul Nulla, che ho letto, è proprio stato scritto da un cristiano: Sergio Quinzio. Certamente, non un cristiano tutto pic nic e gite con l'oratorio, si intende...)
"Nella più profonda oscurità del Nichilismo, ho cercato soltanto motivi per superarlo. E comunque non per virtù, né per una rara elevazione dell'anima, ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza."
Da questa assenza di Dio e dunque dall'assenza di una prospettiva oltre la morte, deriva un premio maggiore per le gioie che ci vengono offerte su questa terra. L'epigrafe de "Il Mito di Sisifo", ispirata al poeta greco Pindaro, non è posta a caso:
"Anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esplora il campo del possibile."
UN COMMENTO A SARTRE
«Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione.» «Il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.» Queste le desolate riflessioni di Antoine Roquentin, protagonista della Nausea. Nelle sue prime opere, Sartre descrive l'essere umano, messo quotidianamente a confronto con la minaccia del nulla, con l'angoscioso privilegio della libertà, con l'imprescindibile bisogno di progettualità, racchiuso nei limiti che il corpo, il tempo, gli altri, la morte gli impongono. La condizione umana comporta un prezzo di sofferenza che non ha senso, né ragione alcuna. Per viltà, gli uomini, nella loro maggioranza, occultano le proprie miserie, le proprie angosce, si mascherano di fronte a se stessi e agli altri, preferiscono vivere "in malafede"; al contrario per Sartre la dignità umana sta proprio nell'autenticità, che non può prescindere dal riconoscimento del nulla, della negatività, della morte. È questo, anzi, il presupposto della libertà che quindi è scelta consapevole
del proprio destino, accettazione delle proprie responsabilità profonde, e si contrappone a quello che egli definisce lo "spirito di serietà": l'uomo non può semplicemente adeguarsi a valori,
morali o religiosi, che gli vengono dati dall'esterno, e assumere così dei "ruoli" che lo imprigionano, ma deve percorrere un difficile cammino per scoprire la propria autenticità e quindi la propria libertà. Certo, questi temi, queste suggestioni non caratterizzano solo Sartre: sono presenti nella contemporanea
filosofia tedesca, che egli del resto ben conosceva, e costituiscono il terreno comune anche di molti intellettuali e scrittori francesi che vissero con intensità, ma anche con grande incertezza sul futuro, gli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale: da Nizan a Camus, da Merleau-Ponty alla
stessa Simone de Beauvoir. Sartre ebbe la caratteristica di trattarli sistematicamente, filosoficamente e, al tempo stesso, di "incarnarli" in personaggi che divennero ben presto dei simboli,
almeno per la sua generazione. (dal commento introduttivo di Giorgio Monicelli)
Martin Heidegger
Un omaggio a questo celebre Pensatore, Martin Heidegger!
Questo "articolo" vuole essere "uno schemino" in cui si analizza qualche concetto preso da Heidegger, tentando di fare dei collegamenti con altri Autori.
NON ha pretese di essere "accademico" (per mia incapacità di fondo) né esaustivo, vuole solo essere introduttivo, e si spera, interessante e utile.
****
La vita umana, per Heidegger, può essere riassunta in un "esser gettato", vale a dire, una "deiezione":
nessuno di noi ha deciso di nascere (da vedere anche i celebri aforismi di Cioran, in merito alla condizione della nascita, vista come baratro, e la sarcastica constatazione che "non nascere" sarebbe stata la condizione esistenziale migliore, ma putroppo al di fuori della portata di tutti noi...) ma "purtroppo" esistiamo, ed esistiamo come "scelta dell'agire di qualcunaltro." (i nostri genitori).
Siamo qui, in questo momento, senza averlo deciso a priori. Senza che sia stato approvato da noi stessi.
Domandiamoci con sincerità:
se ancor prima della nostra venuta al mondo, ci fosse stata data la possibilità di vedere, come in un film, tutta la nostra vita, così come si svolgerà, attimo per attimo, quanti di noi avrebbero accettato di nascere?
Nascere, il nostro esistere, quindi, così come la nostra particolarità, non dipende da noi, anche se ciascuno di noi cerca di creare condizioni favorevoli, con tentativi più o meno riusciti, di migliorare, cercare nuove prospettive di vita, di essere....
il credere al libero arbitrio di ciascuno di noi, o al contrario, il credere a un destino già segnato e immutabile, e così via, ma, di fatto, la nostra nascita non dipende da noi.
La Condizione di Gettità riguarda quindi tutti i nostri condizionamenti biologici, psicologici, sociali, che ci caratterizzano, ci rendono esseri umani, da una parte, ci esaltano (pensiamo a ciò che l'essere umano crea dal nulla: poesia, arte, musica, emozione, opere architettoniche sublimi, progresso nelle scienze, tutte espressioni dell'ingegno umano)
ma dall'altra, ci limitano e ci fanno pensare di essere un qualcosa di "già fatto" e compiuto, esaurito, immodificabile.
Un esempio di condizione già data e "già fatta" è il luogo della nostra nascita, o di come siamo esteticamente, o ancora,
il tipo di famiglia in cui cresciamo.
Secondo Heidegger, la condizione umana può essere un'"Esistenza Inautentica" o un'"Esistenza Autentica".
Nell'Esistenza Inautentica, la Via dell'Inautenticità, dell'In-sistere, si permane nei binari della propria condizione di gettità, che si declina in scelte impersonali: si agisce come ci si aspetta dall'altro, dagli altri, società, collettività, "quieto vivere".
Da una parte, siamo assolti: rimorsi, colpe, imbarazzi, sono delegati alla pluralità (tipico discorso di certa psicologia da talk show, che delega la colpa dei crimini di volta in volta al "è colpa del rock satanico", "si vestiva tutto di nero", "colpa dei genitori" e via dicendo, e via colpevolizzando a ritroso, la colpa è sempre di un capro espiatorio....), dall'altra, agendo nel solco del "faccio così perché lo fanno tutti" ci rende autonomi, spersonalizzati, anonimi.
Vediamo sul concetto di colpa, qualche frase presa da "La Caduta" di Camus:
"Per qualche tempo in apparenza, la mia vita continuò come se nulla fosse mutato... in quel momento il pensiero della morte irruppe nella mia vita di tutti i giorni... per essere franco, quello che facevo metteva conto di essere continuato? Ero perseguitato da un ridicolo timore: che non si potesse morire senza aver confessato tutte le proprie menzogne.
Non a Dio, o ad uno dei suoi rappresentanti.
Ero superiore a questo...
Non possiamo affermare l'innocenza di nessuno mentre possiamo affermare con sicurezza che tutti sono colpevoli...
chi avrebbe creduto che il delitto non consiste tanto nel far morire altri quanto nel morire noi stessi...Per desiderio di vita eterna, andavo a letto con le puttane e bevevo notti intere.
Certo, al mattino avevo in bocca il sapore amaro della condizione mortale...vivevo in una sorta di nebbia...morivo quietamente della mia guarigione...visto che non si potevano condannare gli altri senza giudicare immediatamente se stessi, bisognava incolpare se stessi per avere diritto di giudicare gli altri...da un po' di tempo a Mexico-City la mia utile professione consiste prima di tutto nel praticare il più possibile la confessione pubblica.
Mi accuso per lungo e per largo...più mi accuso più ho il diritto di giudicare...bevendo l'assenzio del giorno che nasce finalmente ebbro di parole cattive, io sono felice.
Avrei concluso la mia anonima carriera di falso profeta che grida nel deserto e rifiuta di uscirne."
Ritornando ad Heidegger, nell'Esistenza Autentica, la Via dell'Autenticità, dell'Ex-sistere, consiste nel portarci oltre (trascendere) a ciò che già siamo, trascendersi in un pro-getto.
Il soggetto, l'Io, diventa quindi Singolo, Unico; solo nella scelta individuale abbiamo la responsabilità e la libertà di agire, scegliere questo o quello. Siamo protagonisti in prima persona.
A tal proposito, è da citare questo passo preso da Max Stirner, in "L'Unico e la sua proprietà":
"Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il Nulla Creatore, il Nulla dal quale Io stesso, in quanto Creatore, creo tutto."
"Io fondo la Mia causa su Me stesso, Io che sono il Nulla, Io che sono il Mio Tutto, Io che sono l'Unico."
L'Esistenza diventa quindi un Essere-per-la-morte:
nessuno può morire la mia morte
né io muoio la morte di altri.
(così come questo ragionamento, si può estendere ai sentimenti, ai nostri modi di agire davanti al dolore, ai traumi, alle singole vicende, siano esse considerate "destino che doveva capitarmi" o "semplice caso, possibilità tra tante").
La morte, per Heidegger viene quindi vista come possibilità che mi appartiene a scopo esclusivo.
Dire che io sono un Essere-per-la-morte significa liberarsi dal credere che nell'esistenza ci sia qualcosa di stabile e fisso:
ogni possibilità che si presenta (e in questo senso, ciascuno di noi può credere a un dio o al caso, è irrilevante) viene colta come possibilità unica che oggi, e SOLO PER OGGI, mi viene data.
Quanti di noi hanno vissuto per un attimo, un qualcosa che aveva senso, o sarebbe stato, in quell'attimo unico?
E magari, in quel momento, non lo si era vissuto al 100%, si credeva di averlo ancora a disposizione, magari domani...
è da questo che nasce il rimpianto, i "se avessi potuto...",
"se avessi agito proprio in quell'attimo, considerandolo unico e irripetibile!"
Per questo, vivere al 100% ogni momento, con la convinzione che sia solo in quel momento, è l'unico modo per non sprecare "l'attimo fuggente".
Sentiamo cosa ha da dirci Nicola Abbagnano sul concetto di attimo, di scelta, di possibile:
"Il realmente possibile è ciò che che noi possiamo continuare a scegliere senza che l'averlo scelto una volta renda non possibile la scelta ulteriore...
Scegliere una possibilità tra le tante e possibili... La decisione dell'uomo è perciò stesso azione nel mondo... Il Nulla determina la natura dell'esistenza... ogni nostra possibilità
può ad ogni istante cadere nel Nulla... L'uomo può anche riconoscere e accettare la nullità fondamentale dell'esistenza per riconoscere che tale nullità e la morte costituiscono la vera natura di lui in quanto uomo. La morte gli appare come la sola possibilità che gli consenta di realizzarsi come uomo cioè come esistenza."
"Il poter morire che ognuno di noi riferisce non solo a sé ma anche agli altri è il fondamento talora nascosto di attività, pensieri, affetti, cure."
Ma, come Kierkegaard, anche Heidegger pone al centro l'Angoscia, che per Heidegger assume i contorni di un elemento positivo, perché tramite essa ci rapportiamo alla nostra consapevolezza estrema
(dover morire = in un momento, IO cesserò del tutto) che diventa il fulcro dell'Esistenza Autentica, l'acquisizione della propria individualità, del portarsi oltre a ciò con cui si è già nati ("gettati").
L'angoscia si differenzia dalla paura, perché la paura, esaurito l'elemento scatenante, non lascia traccia, mentre l'angoscia può sorgere persino nella più serena delle situazioni (a tal proposito è emblematico "L'urlo" di Munch... un urlo che sorge improvvisamente).
Vediamo Vladimir Jankèlèvitch come descrive la morte (e per me, l'analisi di Jankèlèvitch, resta una delle più suggestive analisi fatte sulla morte):
"La coscienza, nell'istante stesso in cui svanisce, si risveglia; nell'istante in cui muore, resuscita".
"L'istante è vita morente, una morte che coincide con la vita."
"Pensare la morte morendo a furia di pensarci lasciando che essa ci strangoli, che la negazione mortale si trasferisca sul soggetto... che il niente della morte neghi lo stesso essere dell'essere."
"La morte è sempre di volta in volta danzatrice macabra che recita nenie, amante assassina, comandante..."
"L'angoscia del presente si chiama futuro. L'angoscia di oggi si chiama domani. L'angoscia di domani si chiama dopomani... ma l'angoscia delle angosce, quell'angoscia elevata alla potenza che potremmo chiamare ansietà, l'angoscia diffusa e infine estrema,
si chiama Morte."
La morte viene vista quindi come fine dell'Esserci. Il Dasein, Esserci Qui e Ora, che non ha scopo alcuno.
Siamo un Esserci-sino-alla-morte:
il tempo vissuto, il modo di viverlo, diventa quindi la misura del vivere umano.
Vicino a Heidegger, troviamo Emmanuel Lévinas, insieme a Buber, Scholem, Rosenzweig e Wiesel, tra I Maestri della Filosofia Ebraica.
L'esistenza è, per Lévinas, il fenomeno dell'essere inteso come "Il y a" (in francese, "c'è").
La situazione in cui la persona individuale non emerge ancora come distinta dallo sfondo impersonale.
Il c'è, l'esistenza, è un flusso anonimo e indefinito.
Secondo Lévinas, il massimo livello di essere esistente lo si realizza quando avviene la relazione con l'altro/gli altri
(...l'Inferno sono gli altri, come direbbe Sartre, a questo punto, forse....)
Si ha quindi un vivere-per-gli-altri, e persino la relazione erotica acquisisce la consapevolezza estrema dell'alterità, "del mio altro":
Ognuno di noi è sempre faccia a faccia con qualcun altro.... e ciascuno di noi, adesso, può rispondere tra sé e sé, se questo sia un bene o un male...
Per Lévinas, quindi, il valore più alto nella vita umana è quello della responsabilità.
Vediamo altri due Pensatori, con queste frasi che "hanno una forte impronta heideggeriana":
Secondo Sartre, "L'uomo è condannato ad essere libero. Condannato perché non si è creato da sé e d'altraparte non di meno libero perché una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto quello che fa."
Per Jean Wahl invece "Definiamo noi stessi grazie alle nostre speranze e rimpianti... l'uomo è l'essere che problematizza la sua esistenza, ma quando lo fa non può che rispondere con la dissimulazione o il silenzio."
Per finire, Heidegger fu un punto di riferimento anche per Gadamer, Padre dell'Ermeneutica.
Concludendo, un pensiero di Heidegger:
"Non resta alcun sostegno: resta solo e ci piomba addosso - nello scomparire di ogni cosa - questo "nessuna cosa" a cui appigliarsi. L'Angoscia rivela Il Niente. Nell'Angoscia noi "siam sospesi". Meglio: l'Angoscia ci tien sospesi, perché porta le cose nella loro totalità a scomparire. E questa è la ragione per cui noi stessi - questi esseri umani - questi esistenti umani in mezzo alla totalità, scompariamo con essi a noi stessi. E però, in fondo, non io o tu, ma si è presi da sgomento. Soltanto il puro esistere, nell'ondeggiamento di tale sospensione che non può afferrarsi a niente, è quel che resta.
L'Angoscia ci serra alla gola, scomparendo ogni esistente nella totalità, e poiché il Niente ci stringe da ogni lato, ogni tentativo di dire "è" tace alla vista di lui.
Che noi nella vaga e inquietudine dell'Angoscia spesso cerchiamo di rompere il silenzio col parlare a vanvera, è soltanto una prova della presenza del Niente. Che l'Angoscia sveli il Niente, lo constatiamo noi stessi immediatamente appena se ne va. Lo sguardo ancora fresco del ricordo si rasserena, e noi siamo costretti a dire: di che e perché ci siamo angosciati? Non c'era "propriamente" niente. E, in realtà, il Niente Stesso - come tale - era là."
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