Albert Camus
Scritti Giovanili - "Deliri" - (1932)
Non posso dimenticare la mia intelligenza se non restando me stesso. E allora perché analizzare, perchè rivoltarsi?
Vivere non è già una rivolta sufficiente?
"Le barche" (1934)
La solitudine che era venuto a cercare, adesso gli dava fastidio... il bambino corre, si ferma, ascolta. Adesso cade la pioggia, sottile sulle cime degli alberi, nel bosco sciabordante le foglie parlano.
Ombre, vento, passano tra le maglie della notte.
... Dolori, silenzi, pallori, è tutto già morto.
... Adesso costeggia il lago di cui conosce la cintura di fiori nel giorno e, in fondo, le ombre verdi, lenzuolo funebre d'Ofelia.
Da "La Caduta"
"Per qualche tempo in apparenza, la mia vita continuò come se nulla fosse mutato... In quel momento il pensiero della morte irruppe nella mia vita di tutti i giorni... per essere franco, quello che facevo metteva conto di essere continuato? Ero perseguitato da un ridicolo timore: che non si potesse morire senza aver confessato tutte le proprie menzogne. Non a Dio, o a uno dei suoi rappresentanti.
Ero superiore a questo...
Non possiamo affermare l'innocenza di nessuno mentre possiamo affermare con sicurezza che tutti sono colpevoli...
Chi avrebbe creduto che il delitto non consiste tanto nel far morire altri quanto nel morire noi stessi... Per desiderio di vita eterna, andavo a letto con le puttane e bevevo notti intere.
Certo, al mattino avevo in bocca il sapore amaro della condizione mortale... Vivevo in una sorta di nebbia... Morivo quietamente della mia guarigione... Visto che non si potevano condannare gli altri senza giudicare immediatamente se stessi, bisognava incolpare se stessi per avere diritto di giudicare gli altri... da un po' di tempo a Mexico-City la mia utile professione consiste prima di tutto nel praticare il più possibile la confessione pubblica.
Mi accuso per lungo e per largo... Più mi accuso più ho il diritto di giudicare... Bevendo l'assenzio del giorno che nasce finalmente ebbro di parole cattive, io sono felice.
Avrei concluso la mia anonima carriera di falso profeta che grida nel deserto e rifiuta di uscirne."
Da "Lo Straniero" , 1942, pagina 129
Durante tutto il giorno avevo la domanda di grazia. Credo di aver sfruttato il massimo possibile quest'idea. Calcolavo gli effetti e ottenevo dalle mie riflessioni il miglior rendimento. Partivo sempre dalla supposizione peggiore: la domanda era respinta. "Ebbene, allora morrò". Più presto che molti altri, evidentemente. Ma tutti sanno che la vita non val la pena di essere vissuta, e in fondo non ignoravo che importa poco morire a trent'anni oppure a settanta quando si sa bene che in tutt'e due i casi altri uomini e altre donne vivranno, e questo per migliaia di anni. Tutto era molto chiaro, insomma: ero sempre io a morire, sia che morissi subito, sia che morissi fra vent'anni. A questo punto quel che mi turbava un po' nel mio ragionamento era il vuoto terribile che sentivo in me al pensiero di vent'anni di vita non ancora vissuta. Ma non avevo che da soffocarlo immaginando quali sarebbero stati i miei pensieri dopo vent'anni, quando mi sarei dovuto trovare in ogni modo a quel punto. Dal momento che si muore, come e quando non importa, è evidente. Dunque (e il difficile era di non perdere di vista tutto il filo dei ragionamenti che quel "dunque" rappresentava), dunque dovevo accettare che il mio ricorso fosse respinto.
****
Dai "Taccuini":
La rinuncia alla giovinezza: non sono io che rinuncio alle persone e alle cose (non lo potrei) sono le cose e le persone che rinunciano a me. La mia giovinezza mi sfugge: essere malati è questo.
La malattia è un convento con la sua regola, la sua ascesi, i suoi silenzi e le sue ispirazioni.
In autunno quel paesaggio s'infiora di foglie, i ciliegi diventano rossi, gli aceri gialli... i faggi si coprono di bronzo...
Al mattino tutto è coperto di brina, il cielo risplende dietro le ghirlande... piccoli crepitii come sospiri dell'albero, brina che cade al suolo con un rumore d'insetti bianchi gettati gli uni sugli altri... intorno le vali e le colline svaniscono in vapori...
La sensazione della morte che mi è familiare: senza il sostegno del dolore. Il dolore aggrappa al presente, esige la lotta che occupa. Ma sentire la morte alla semplice vista di un fazzoletto inzuppato di sangue, significa piombare senza sforzo nel tempo in modo vertiginoso: è il terrore del divenire.
Dicembre: questo cuore pieno di lacrime e di notte...
La fine di un giorno freddo, i crepuscoli di ombre e di ghiaccio... più di quanto io possa sopportare...
Simone Weil dice: non si arriva alla verità senza essere passati per il proprio annientamento: senza aver soggiornato a lungo in uno stato di totale ed estrema umiliazione.
Quei momenti in cui ci si abbandona alla sofferenza come si fa con il dolore fisico: stesi, immobili,senza volontà, né avvenire, ad ascoltare soltanto le lunghe fitte del male....
Prigioniero della caverna, eccomi solo di fronte all'ombra del mondo.
Pomeriggio di gennaio, ma il freddo rimane dietro, nell'aria... chi sono e cosa posso fare,se non entrare in quel gioco di fronde e di luci. Essere questo raggio di sole in cui si consuma la mia sigaretta, questa dolcezza, questa passione discreta che respira nell'aria.
La vita è breve e perdere il proprio tempo è peccato.
Io il mio lo perdo continuamente e gli altri mi credono estremamente attivo... Se ancora mi soffoca un senso di angoscia, esso consiste nel sentire che quest'attimo impalpabile mi scivola fra le dita come le perle del mercurio... Di questo mondo è il mio regno: una nube che passa e un istante che si spegne: la morte di me per me stesso.
Questa sofferenza mi inebria perché è questo sole e queste ombre, questo caldo e questo freddo che si sente in lontananza nel fondo stesso dell'aria.
Non bisogna perdere la speranza di essere ancora vivi nella propria giovinezza. Il giorno in cui i fiori rinasceranno finalmente dalle rovine.
La vertigine di perdersi e negare tutto, di non assomigliare a niente, di spezzare per sempre ciò che ci definisce, di offrire al presente la solitudine e il nulla, di ritrovare la piattaforma unica da cui i destini possono ad ogni istante ricominciare.
Al mattino aspettavo all'angolo di un prato sotto i grandi noccioli, nel freddo vento d'autunno, ronzio senza calore delle vespe, il vento tra le foglie... tra il cielo bruno di settembre e la terra umida...
L'acqua gelata dei bagni primaverili, le meduse morte sulla spiaggia. Una gelatina assorbita a poco a poco dalla sabbia. Le immense dune di sabbia pallida, il mare e la sabbia, questi due deserti.
Nel solleone, sulle dune immense, il mondo si rinserra e si chiude. è una gabbia di calore e di sangue. Non si estende oltre il mio corpo... le dune il deserto il cielo ritrovano la loro distanza, che è infinita.
*****
Dal "Caligola" (1941) atto II
"La solitudine, sì, la solitudine! La conosci tu la solitudine? Sì, quella dei poeti e degli impotenti.
La solitudine? Quale solitudine?
Ma lo sai che non si è mai soli?
E che dovunque ci portiamo addosso il peso del nostro passato e anche quello del nostro futuro?
Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi.
E fossero solo loro, poco male.
Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato, quelli che abbiamo amato e che ci hanno amato.
Il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza, le puttane e la banda degli dei!...
La solitudine risuona di denti che stridono, chiasso, lamenti perduti... Se soltanto potessi godere la vera solitudine, non questa mia solitudine infestata dai fantasmi, ma quella vera, fatta di silenzio e tremore d'alberi."
Atto IV
"Te che odio - te che sei per me come una ferita che vorrei strapparmi di dosso con le unghie perché il sangue infetto possa sgorgare con la vita a fiumi."
Sartre e Camus nel commento di Desalmand
Jean Paul Sartre è la figura di spicco dell'Esistenzialismo Ateo. Posta fin dall'inizio l'assenza di Dio, si tratta di rispondere alla domanda "che fare?"; su che cosa basarsi per stabilire una linea di condotta meditata? Visto che i valori non scendono più giù dal cielo, dove trovarli? La risposta è semplice: in se stessi.
Per Sartre, l'uomo è l'essere attraverso il quale i valori vengono al mondo. Ognuno deve assumere la sua libertà. Per Sartre il Bene è accettarsi come un essere libero, responsabile di ciò che la storia ha fatto di lui. Il Male è fuggire da questa responsabilità, preferendo un destino subito a un destino scelto.
Quest'idea di un uomo che rifiuta la tutela degli Dei, e perciò diventa responsabile, appare in molti personaggi sartriani e specialmente in Oreste, personaggio centrale delle "Mosche" (che qui si rivolge a Giove):
"Straniero a me stesso, lo so. Fuori natura, contro natura, senza scuse, senza ricorrere a niente altro che a me. Ma io non ritornerò sotto la tua legge: sono condannato a non avere altra legge al di fuori della mia. (*) Io non ritornerò alla tua natura: vi sono tracciati mille percorsi che conducono verso di te, ma io posso seguire solo il mio percorso. Perchè io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino."
(*) Nota di Lunaria: si ricordi il parallelo con Schiller nei "Masnadieri" (1781):
"Comunque tu sia, Indicibile Eternità,
solo questo mio Io resta fedele... comunque tu sia,
porterò con me solo me stesso.
Le cose esteriori sono solo l'apparenza dell'uomo.
IO SONO IL MIO CIELO E IL MIO INFERNO"
Oltre che col Satana Miltoniano:
"Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno;
e nell'abisso più fondo un altro abisso"
"La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso;"
Probabilmente, un sartreaismo estremo sfocerebbe nella disperazione, se non ad un vivere arido. Tuttavia, è possibile sublimare concetti come "bisogno di infinito, di conforto", l'anelito all'Infinito, al Metafisico, al Sehnsucht, nella solidarietà (Sorellanza...) o nell'Arte. Arte diventa contemplazione del Bello, della scintilla "spirituale" nell'essere umano, che crea infiniti universi, con la sua fantasia. Non abbiamo bisogno di un dio, men che meno maschile, per nobilitare l'esistenza umana. Basta l'Arte a 360 gradi.
Sartre si avvicina alle tesi di Marx sulla religione, concepita come un'illusione alienante, ma il suo ateismo non si limita a questo. è metafisico. L'idea di un Dio artigiano è respinta, perché l'uomo non può essere considerato come un automa, concepito come un ingegnere. All'origine (come nella testa di un ingegnere che concepisce un automa) non c'è una natura umana, una essenza di origine trascendente, di cui l'esistenza degli individui sarebbe solo uno sviluppo. All'opposto l'esistenza precede l'essenza: ciò a cui si riconduce un individuo, la sua essenza, è determinato solo dalla sua esistenza, dalla somma dei suoi atti (supponendo di poterli conoscere tutti), cioè solo il giorno in cui sarà possibile un'addizione, vale a dire, il giorno della sua morte.
"L'uomo, senza alcun appoggio e senza alcun soccorso, è condannato in ogni istante a inventare l'uomo"
***
Il punto di partenza di Albert Camus è agnostico piuttosto che ateo. In un certo periodo aveva immaginato di attribuire come sottotitolo al "Malentendu": "Dio non risponde".
Il discorso dell'assurdo si ricollega a quel silenzio. (*)
L'assurdo non esiste in sé. Non è neppure possibile dire che il mondo è assurdo. (**) Esiste solo, senza alcun dubbio, il "sentimento dell'assurdo", che nasce da un appello senza risposta:
"Dicevo che il mondo è assurdo (...) L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame. Li sigilla l'uno all'altro come solo l'odio può inchiodare tra loro gli esseri."
(*) Una Mary Daly potrebbe far notare che più che il silenzio di Dio, ad essere problematica e di limite, è la sua virilità.
Un James Cone potrebbe far notare che più che il silenzio di Dio, ad essere problematica e di limite è la sua epidermide; e anche qui, abbiamo i due gruppi esclusi (e ambedue oppressi nella storia) da questo concetto di Dio-Nasce-In-Terra: le donne e i neri.
(**) Sulla giustificazione della "Madre Natura Matrigna" che provoca "male" a suo capriccio, si veda de Sade e la sua concezione di "economia dell'universo" esposta nel "Justine"; il male è necessario al bene, il vizio alla virtù. Catastrofi naturali - e persino le lotte tra individui - servono a questo grande "motore naturale" per muoversi e continuare a farlo.
Che comportamento adottare a partire dalla tabula rasa del Nichilismo? (Nota di Lunaria: stranamente, il più bel libro sul Nulla, che ho letto, è proprio stato scritto da un cristiano: Sergio Quinzio. Certamente, non un cristiano tutto pic nic e gite con l'oratorio, si intende...)
"Nella più profonda oscurità del Nichilismo, ho cercato soltanto motivi per superarlo. E comunque non per virtù, né per una rara elevazione dell'anima, ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza."
Da questa assenza di Dio (*) e dunque dall'assenza di una prospettiva oltre la morte, deriva un premio maggiore per le gioie che ci vengono offerte su questa terra. L'epigrafe de "Il Mito di Sisifo", ispirata al poeta greco Pindaro, non è posta a caso:
"Anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esplora il campo del possibile."
(*) Dall'assenza di Dio, la morte totale di questo Dio, deriverebbe, per la prima volta, la morte totale del fallo cosmico, e quindi, la liberazione per la donna. Se Dio è morto, se non esiste più alcun concetto di maschietà ipostatica, se lo stesso concetto di Dio non significa più nulla, ecco che non esiste più alcuna virilità trascesa che tiranneggia la psiche delle donne. La morte di dio, di quel concetto di dio, rende libere le donne.