Elias Canetti
Alcuni Aforismi di Elias Canetti, tratti da "La Tortura delle Mosche"
* Lo sguardo rivolto anno dopo anno allo stesso paesaggio finisce per trasformarsi in un vuoto conciliante che non viene riconosciuto come tale e dunque non viene temuto.
* La pioggia mi rende felice come se fossi appena venuto al mondo, facilmente e senza dolore.
*Spesso ci ammaliamo gravemente per trasformarci in qualcun altro e quando poi guariamo restiamo delusi.
* Una cicatrice, uno squarcio sul volto di una donna - e lei già
possiede l'attrattiva della bestia che potrebbe averla ferita.
* Per poter vivere, assai più che di mete precise abbiamo bisogno di una visione.
* Nella parola «solitudine» c'è una stonatura, come se ancora
derivasse da Dio.
* Una vita fatta di momenti perduti, tutti momenti che ad un tratto e contemporaneamente si illuminano.
* Si appende il niente intorno al collo come una sciarpa, ma quello non vuole, non vuole strangolarlo.
* "Anziché vivere nella disperazione, l'unica forma disinteressata di esistenza..."
* Possibile che mai, neanche per un momento, si possa vivere senza sentirsi costretti a esecrare qualcuno?
* Questo strano amore tardivo per tutto il male che ci hanno fatto le persone a noi più vicine, come se lo avessimo voluto; come se avessimo mirato a questo e non al bene, come se il bene fosse un fine secondario della prossimità, e il male la prestazione vera, quella che resiste nel tempo.
* Di nebbia in nebbia la chiarezza aumenta, finché lui, nel velo della chiarezza massima, si perde e svanisce.
* La pulsazione di Dio dentro di noi: l'angoscia.
* Meno di tutto capisco me stesso. E neanche voglio capirmi. Voglio servirmi della mia persona solo per capire tutto ciò che esiste a prescindere da me.
* Ti sei allontanato dal respiro del mondo per entrare in un carcere sontuoso dove non soffia un alito di vento, e ancor meno un respiro.
* Via, via da tutto ciò che è familiare e personale e sicuro, rinuncia a ogni sorta di dimestichezza, sii audace, le tue orecchie, le tue cento orecchie, hanno dormito anche troppo. Stai per tuo conto e dì a te stesso le parole che non valgono per nessuno, altre, nuove parole, quelle che il respiro del mondo ti affida. Prendi le vie conosciute e spezzale sopra il ginocchio. Quando parli a qualcuno, che sia uno che mai rivedrai. Cerca
l'ombelico del mondo. Disprezza il tempo, e il futuro, miserabile Fata Morgana, lascialo perdere. Non dire cielo, non dirlo mai più. Dimentica le stelle, gettale via come stampelle. Va', da solo e senza certezze. Non ritagliare più frasi di carta. Inondati o taci. Abbatti gli alberi della simulazione, nient'altro che vecchi precetti travestiti. Non ti rassegnare, non è escluso che il respiro del mondo torni ad afferrarti e sostenerti. Tu non chiedere niente e niente ti sarà dato. Nudo, sentirai i dolori dei meschini, non quelli dei signori. Attraversa d'un balzo le falle
della grazia, profonde un migliaio di piedi.
Sotto, che più sotto non si può, soffia il respiro del mondo.
* L'uomo non può diventare migliore attraverso qualcosa che lui
stesso reprime. L'unica via che porta al cambiamento passa attraverso le metamorfosi che vengono escogitate per le sue malvagità. Ma queste metamorfosi devono essere calzanti e inattese, ché altrimenti stimolano nuove malvagità. Perlopiù una metamorfosi subentra all'altra e il gioco va avanti, impercettibile e divertito.
* Tu hai paura di tutto ciò che non viene dopo la morte.
* Spesso la sua stessa ombra gli è troppo pesante.
* Solo recitando la propria infelicità si può superarla.
* Non spiegare a nessuno, neanche a se stessi, fino a che punto si è derelitti.
* Mi rovistano dappertutto alla ricerca delle loro rovine. Io sono la mia, di rovina.
* Da ultimo perdette i nomi. Senza che lui se ne rendesse conto, si dissolsero nel suo. Non percepiva più i loro confini, e quando li sentiva pronunciare non sapeva che erano loro. Nulla sapeva più dei fastidi che gli avevano dato. Dimenticò che cos'era il rancore. Non c'erano più affamati per le strade. Tutti erano sazi. Invitava i passanti in casa sua, quelli non chiedevano di meglio che perdersi per via. Ombre e persone camminavano separate.
* Tutti sentimenti vani, come quelli degli animali prima della
macellazione. Sarebbe più giusto se di una vita non restasse niente, niente di niente? Se la morte significasse lo spegnersi istantaneo della nostra immagine in tutti coloro che la possiedono? Non sarebbe più decoroso nei confronti di quelli che verranno dopo? Forse, infatti, tutto ciò che resta di noi è una pretesa onerosa nei loro riguardi. Forse l'uomo non è libero perché molto, troppo, rimane in lui dei morti, e questo molto ricusa in eterno di spegnersi.
* Quando sostiene che non crede a nient'altro che alla metamorfosi, intende dire che si sta esercitando nelle elusioni, pur sapendo che lui non potrà ancora eludere la morte, ma altri sì, altri, un giorno.
* Ciò che veramente si è modificato nell'epoca presente è il contesto della morte. La massificazione della morte non è più un'eccezione, tutto va a finire lì dentro. Nella fretta di arrivarci perde peso la morte del singolo.
Con tutti gli uomini che ci sono in più... devono ancora morire
uno alla volta? Il punto di non ritorno sarà raggiunto il giorno in cui non verrà più permesso agli esseri umani di morire, appunto, uno alla volta.
* Eppure non c'è niente di cui sono sazio. Sono tuttora racchiuso nella vita. Io non dico: finalmente. Io non
capitolo. E umiliante morire senza sapere se di qui a cent'anni ci sarà ancora un essere umano. Era più facile allora, quando si aveva la prospettiva sicura di andare all'inferno. Questa prospettiva, la scomparsa degli esseri umani in un tempo ragionevole, è la più atroce che sia mai esistita.
* Nessuno resiste senza vite prestate, la nostra vita non ci basta.
* La più tremenda di tutte le storie l'ho trovata oggi, nelle memorie di una donna, Misia Sert.
Chiamerò questa storia, che riporto alla lettera, La tortura delle mosche: «Una delle mie piccole compagne di dormitorio era diventata maestra nell'arte di acchiappare le mosche. Pazienti studi su questi animali le avevano permesso di individuare il punto esatto dove bisognava far passare l'ago per infilzarle senza che morissero. Così si faceva delle collane di mosche vive e andava in estasi per la sensazione divina che le procurava il contatto sulla pelle di tutte quelle zampette disperate e di quelle ali frementi».
* In epoche di forti sospetti noi stessi trasformiamo le persone che conosciamo bene o quelle con cui da ultimo abbiamo parlato in figure enigmatiche e pericolose che, animate dalle peggiori intenzioni, ci dicono ogni sorta di cose insidiose e malevole. La nostra risposta è pungente. Quella che essi ci restituiscono ancora di più. Il loro unico intento è farci infuriare e costringerci poi, nella collera e nell'angoscia, a dimenticare ogni riguardo e sbattergli in faccia i loro tratti peggiori, ingigantiti fino al demoniaco. Essi diventano allora pallidi come cadaveri, può darsi perfino che per un certo periodo si fingano morti.
Ma poi tutt'a un tratto tornano ad aggredirci, preferibilmente da dietro, a tradimento. Ci azzanniamo con loro in dispute interminabili. Capire ci capiscono sempre, così come noi comprendiamo loro, tutto è reso uniformemente limpido dall'ostilità. Forse queste figure ci vogliono divorare, pensiamo, e ci sentiamo più che mai minacciati nella parte della nostra persona che per prima esse possono raggiungere. Rapidi ritiriamo la mano, nascondiamo la stizza, sigilliamo la lingua pur continuando a parlare senza posa. La figura nemica è definita con
nettezza solamente nell'odio che ci manifesta e che noi le restituiamo.
Ma essa non può mordere a casaccio, ha una sua peculiare limitazione proprio nella dipendenza da noi. Come fumo è nata e come fumo è
soffiata qua e là. Trema e si gonfia al pari di un invertebrato, e io penso talvolta che essa sia il ricordo del tempo in cui vivevamo negli abissi marini ed eravamo ghermiti da creature informi.
Tuttavia, non appena ci viene incontro la persona vera, quella alla quale la figura è debitrice del proprio nome, subito questa si dilegua nel nulla, e noi per il momento ci mettiamo l'animo in pace.
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Elias Canetti, premio Nobel 1981 per la Letteratura, è nato nel 1905 a Rustschuk (Bulgaria) da una famiglia ebraica di origine spagnola. è vissuto a Vienna, Londra e Zurigo. Autore di numerose opere, pubblicate nell'Adelphi.
"Massa e Potere" (1960), è un libro scritto a brevi paragrafi, similmente al "Sommario di decomposizione" di Emil Cioran.
Nel 1922, a Francoforte, lo studente diciassettenne Elias si trovò ad assistere ad una manifestazione contro l'assassinio di Rathenau. Quel giorno egli sentì che la massa esercita un'attrazione enigmatica, qualcosa di paragonabile al fenomeno della gravitazione. Nel 1927 a Vienna, compiva un ulteriore passo: l'esperienza di essere nella massa, partecipando al grande corteo del 15 luglio, quando fu incediato il Palazzo di Giustizia.
Nelle sue memorie, Canetti scriverà, a proposito della massa: "è un enigma che mi ha perseguitato per tutta la parte migliore della mia vita e, seppure sono arrivato a qualcosa, l'enigma nondimeno è restato tale."
Riporterò qualche stralcio, che mi sembra sia davvero esplicativo al riguardo della nostra società "facebookiana", dove tutti sono ugualmente appiattiti, ripiegati su mode effimere, e per essere accettati dalla massa, bisogna essere come loro, pena la scomunica nella solitudine più totale.
Capovolgimento del timore d'essere toccato
Nulla l'uomo teme più che essere toccato dall'ignoto. Vogliamo vedere ciò che si protende dietro di noi: vogliamo conoscerlo o almeno classificarlo. Dovunque, l'uomo evita d'esser toccato da ciò che gli è estraneo. Di notte o in qualsiasi tenebra il timore suscitato dall'essere toccati inaspettatamente può crescere fino al panico. Neppure i vestiti garantiscono sufficiente sicurezza; è talmente facile strapparli, e penetrare fino alla carne nuda, liscia, indifesa dell'aggredito.
Tutte le distanze che gli uomini hanno creato intorno a sé sono dettate dal timore di essere toccati. Ci si chiude nelle case, in cui nessuno può entrare; solo là ci si sente relativamente al sicuro. La paura dello scassinatore, non si riferisce soltanto alle sue intenzioni di rapinarci, ma è anche timore di qualcosa che dal buio, all'improvviso e inaspettatamente, si protende per agguantarci. La mano configurata ad artiglio è usata continuamente come simbolo di quel timore. [...]
La ripugnanza d'essere toccati non ci abbandona neppure quando andiamo fra la gente. Il modo in cui ci muoviamo per la strada, fra molte persone, al ristorante, in treno, in autobus, è dettato da quel timore. [...] Solo nella massa, l'uomo può essere liberato dal timore d'essere toccato. Essa è l'unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto. è necessaria per questo la massa densa, in cui corpo si addossa a corpo, una massa densa anche nella sua costituzione psichica, proprio perchè non si bada a chi "ci sta addosso". Dal momento in cui ci abbandoniamo alla massa, non temiamo d'esserne toccati. Nel caso migliore, si è tutti uguali. [...] D'improvviso, poi, sembra che tutto accada all'interno di un unico corpo. [...] Quanto più gli uomini si serrano disperatamente gli uni agli altri, tanto più sono certi di non aver paura l'uno dell'altro.
Massa aperta e chiusa
Fenomeno enigmatico quanto universale, è la massa che d'improvviso c'è là dove prima non c'era nulla. Potevano trovarsi insieme poche persone, cinque o dieci o dodici, non di più. Nulla si preannunciava, nulla era atteso. D'improvviso, tutto nereggia di gente. Da ogni parte affluiscono altri; sembra che le strade abbiano una sola direzione. Molti non sanno cos'è accaduto, non sanno rispondere nulla alle domande; hanno fretta, però, di trovarsi là dove si trova la maggioranza.
[...] La spinta a crescere è la prima e suprema caratteristica della massa. Essa vuole afferrare chiunque le sia raggiungibile. Chiunque si configuri come un essere umano può unirsi a lei. La massa naturale è massa aperta: non c'è limite alla sua crescita.
A questo, aggiungo una breve riflessione: è simbolico, che nei roghi delle streghe, nei raduni nazisti, nella lapidazione o nella fustigazione dell'adultera, ci sia sempre stata una folla. Un brulichio di persone, che assistono tutte inglobate le une alle altre, in un'unica massa compatta, appunto, all'evento, guidate, ipnotizzate, affascinate, ora dall'inquisitore, ora da Hitler, ora dall'imam: il capo - nel senso prettamente letterale di "testa" - della massa.