Autori cristiani vari ed eventuali altri autori



BUCHNER, TURGENEV E GEORG


"Morte di Danton" di Georg Buchner:

"Nel Nulla.
Sprofondati in qualcosa di più tranquillo del Nulla, e se la massima pace è Dio, non è il Nulla Dio?
Ma io sono un ateo.
Maledetto l'assioma che dice: "Nessuna cosa può trasformarsi in Nulla" ed io sono un qualche cosa, questa è la disgrazia!
La creazione ha occupato tanto posto, non c'è nulla di vuoto, dappertutto è un brulicare.
Il Nulla si è ucciso, la creazione è la sua ferita, noi siamo le gocce del suo sangue, il mondo è la tomba dove esso marcisce."

(frasi veramente dense di Nichilismo... quasi blasfemo...una "benedizione dell'orrore dell'esistenza"...)


***


"Padri e figli" di Ivan Turgenev:

Domanda:

"Voi negate tutto o più esattamente, demolite tutto... ma bisogna anche costruire."

Risposta:

"Questo non è più affar nostro... da prima bisogna far piazza pulita"



***


Stephan Georg: una poesia dedicata a Nietzsche: la trovo veramente bellissima *.* molto tragica ed eroica....

"Ma tu stai raggiante al di sopra del tempo, come altri duci dalla corona insanguinata, tu redentore! E insieme il più infelice... Non creasti delle divinità solo per abbatterle?
Mai pacificato da una tappa, hai ucciso in te stesso ciò che ti è più prossimo per poi tremare ancora una volta agognandolo. E gridare nel dolore della solitudine. Venne troppo tardi chi ti disse implorandoti: là non c'è più un cammino che ti conduca oltre rupi coperte di ghiaccio e nidi di uccelli raccapriccianti. Ora è necessario rinchiudersi nella cerchia che schiude l'amore e quando poi la voce severa e addolorata risuonò come un canto di lode nella notte livida, e come un limpido flutto, così sfogò la propria pena: avrebbe dovuto cantare e non parlare questa nuova anima!"


***


ERNST JUNGER

"Che il Nichilismo rappresenti una necessaria stazione di transito lo si è ripetuto più volte dacchè l'ebbe detto Nietzsche.
La parola stessa acquista il suo senso solo alla luce del diritto paterno, e come un satellite illuminato, perde il suo bagliore non appena il sole tramonta.
Il Nichilista cade insieme a quel che abbatte, qualora il Nichilismo abbia rappresentato per lui non una fase di transizione bensì la ragion d'essere.
Viene così alla luce come non sia possibile volere il Nulla.
Per volere il Nulla bisogna anzitutto non volere. Ma ciò non vale nel caso del nostro Nichilismo.
Esso non vuole il Nulla, ciò che non vuole è una determinata cosa: il potere paterno.
Al sovvertimento, se ha ottenuto successo, fa seguito un breve ma importante periodo di tempo in cui tutto è possibile.
Il fondo originario si presenta sotto forma di caos.
A questo incontro è preparato sì l'Anarchico, in quanto figlio e adoratore della terra, ma non il Nichilista, i cui sforzi sono legati alle istituzioni che egli, al pari di Sansone, può distruggere, ma solo per finire seppellito sotto le loro rovine."

(Tratto da  "Al muro del tempo")


Colgo in questo concetto la natura diversa dell'Anarchia quale caos come transizione verso un nuovo ordine (che nelle parole di Junger ha un'origine di matrice psicoanalitica, di contrapposizione e ribellione al potere paterno) e del Nichilismo "puro e duro", che è la Fine di Tutto, l'omicidio che si compie solo con il suicidio finale, come ben espresso dalla leggenda di Sansone.


 "Trattato del Ribelle"

La paura è uno dei sintomi del nostro tempo.    
Tanto più essa suscita costernazione in quanto è  succeduta a un’epoca di grande libertà individuale, in cui la stessa miseria, per esempio quella descritta da Dickens, era ormai quasi dimenticata.    
In che modo è avvenuto questo passaggio? Se volessimo scegliere una data fatidica, nessuna sarebbe più appropriata del giorno in cui affondò il Titanic. Qui luce e ombra entrano bruscamente in collisione: l’hybris del progresso si scontra con il panico, il massimo comfort con la distruzione, l’automatismo con la catastrofe che prende l’aspetto di un incidente stradale. È un fatto che i    
rapporti tra i progressi dell’automatismo e quelli della paura sono molto stretti: pur di ottenere agevolazioni tecniche, l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore. Il singolo non occupa più nella società il posto che l’albero occupa nel bosco: egli ricorda invece il passeggero di una veloce imbarcazione che potrebbe chiamarsi Titanic o anche Leviatano. Fintanto che il tempo si mantiene sereno e il panorama è piacevole, il passeggero quasi non si accorge di trovarsi in una situazione di minore libertà: manifesta anzi una sorta di ottimismo, un senso di potenza dovuto alla velocità. Ma non appena si profilano all’orizzonte iceberg e isole dalle bocche di fuoco, le cose cambiano radicalmente. Da quel momento non soltanto la tecnica abbandona il campo del comfort a favore di altri settori, ma la stessa mancanza di libertà si fa evidente: sia che trionfino le forze elementari, sia che taluni individui, i quali hanno conservato la loro forza, esercitino   
un’autorità assoluta.

I particolari sono noti e molti li hanno più volte descritti; fanno parte integrante della nostra esperienza più intima. Qui si potrebbe obiettare che in passato sono esistite epoche di terrore, di panico apocalittico, non orchestrate o accompagnate da questo carattere di automatismo.
È questa una questione sulla quale non intendiamo soffermarci giacché l’automatismo diventa terrificante soltanto se si rivela una delle forme della fatalità, nell’insuperabile raffigurazione che ne ha dato a suo tempo Hieronymus Bosch. Che il terrore dei moderni    
abbia semplicemente lo stile che l’angoscia cosmica adotta oggi, in uno dei suoi perenni ritorni? Non vogliamo soffermarci su questa questione, ma piuttosto rispondere alla domanda speculare che è quella che davvero ci sta a cuore: l’automatismo perdura, o, come è prevedibile, mentre esso si avvicina sempre più alla perfezione? Non sarebbe insomma possibile rimanere sulla nave e conservare la nostra autonomia di decisione – ossia non soltanto preservare, ma addirittura rafforzare le radici che ancora affondano nel suolo originario? È questo il problema fondamentale della nostra esistenza.         È anche il problema che si  nasconde dietro a ogni angoscia del nostro tempo. L’uomo si chiede in che modo gli sia possibile sottrarsi all’annientamento. In questi anni, in qualsiasi parte d’Europa ci si trovi a conversare, vuoi con amici vuoi con gente che non si conosce, il discorso si volge ben presto a temi generali e lascia trasparire un profondo avvilimento. Appare subito evidente che quasi tutti, uomini e donne, sono in preda a un panico che dalle nostre parti non si era più visto dagli inizi del Medioevo. In una sorta di cieco invasamento, li vediamo tuffarsi nel loro terrore, di cui esibiscono i sintomi senza pudore alcuno. Assistiamo a una gara di spiriti che discutono animatamente se sia più opportuno fuggire, nascondersi o ricorrere al suicidio, e che, pur godendo ancora della completa libertà, già congetturano con quali mezzi e astuzie sarà possibile accaparrarsi il favore della plebaglia non appena questa si sarà impadronita del potere. Con raccapriccio ci accorgiamo che a nessuna bassezza costoro non darebbero il loro assenso se gli venisse richiesta. Eppure non mancano tra loro uomini sani e vigorosi, con una bella corporatura di atleti. Viene da chiedersi a che giovi tanto sport.    
Ebbene, questi uomini, oltre che pavidi, sono anche temibili. L’umore balza in essi dalla paura all’odio dichiarato non appena si accorgono che le stesse persone che poco prima incutevano timore mostrano ora qualche segno di debolezza. Siffatte congreghe non s’incontrano soltanto in Europa. Dove l'automatismo guadagna  terreno e si avvicina alla perfezione, il panico si fa ancora più tangibile: in America, ad esempio, esso trova il terreno che gli è più propizio, e si diffonde lungo reti più veloci del fulmine. Già è un indice di angoscia il bisogno di sentire le notizie più volte al giorno; la fantasia si dilata e, girando sempre più vorticosamente su se stessa, finisce per paralizzarsi.   


***


Un po' di Esistenzialismo Cristiano, l'unico cristianesimo che sia
leggibile senza farsi venire una crisi di nervi.


"Nell'Esistenzialismo religioso la problematicità esistenziale si propone, invece, come possibilità di riscatto positivo della coscienza dalla sua tendenziale decadenza in un ordine di determinazioni oggettive e mondane: riscatto che non è garantito se non a patto di una scelta o di un appello di fede, giustificato dalla sofferta consapevolezza critica delle alternative immanenti dell'esistenza. E appunto l'analisi di tali alternative è forse l'aspetto più interessante di siffatte prospettive religiose-esistenziali.
Così, per esempio, in Gabriel Marcel la precisa intuizione della distinzione tra Problema e Mistero ("Un Problema è qualcosa che si incontra e chiude la strada. Esso è tutto dinnanzi a me. Il Mistero è, al contrario, qualcosa in cui io mi trovo implicato, e la cui essenza consiste pertanto nel non essere tutt'intero dinanzi a me") si prolunga e si esaspera nell'antinomia dell'avere e dell'essere, rispettivamente intesi come rapporto possessivo ed esteriorizzante con l'oggetto e come recupero o interiorizzazione del "mio" nell' "io". Analogamente in Le Senne il passaggio della "spontaneità" alla "riflessione" si concreta come antitesi - o come "solidarietà" dialettica - tra la determinazione oggettivante (introdotta dall'ostacolo) e il valore personalizzante: e pone perciò il problema della libertà come processo di liberazione dall'esteriorità mondana della determinazione ("La Libertà non è uno stato, è un'operazione") e come rivelazione del valore."

(Vittorio Sainati)


***

David Maria Turoldo

Da "Il Dramma è Dio"

"Si entra per non uscirne definitivamente mai più. Tutti siamo quell' "in"; ed esisteremo per sempre, anche se in svariati e imprevedibili modi; esisteremo, pur non riuscendo mai ad essere. Esistiamo senza che lo stesso Dio ci possa mai più cancellare dal suo pensiero, quasi non fossimo mai esistiti; e se pure di noi dovesse darsi, per ipotesi, un ritorno al Nulla, non sarebbe che un'ipotesi assurda: neppure Dio può più ridurci al Nulla: neanche Dio può fare a meno di continuare a pensarci una volta che ci ha pensati; e il pensiero di Dio è già azione a suo modo indistruttibile. Così, esisteremo per sempre, anche se non riusciremo ad essere mai. Da lassù ha inizio la vicenda di ogni creatura, è in quell' "in" il dramma del divenire e dell'essere."

"Il Nulla è tanto necessario all'Essere, quanto l'Essere è necessario a se stesso. è il Nulla che ci salva dal panteismo o dal Tutto determinato e immobile. E però, è ancora il Nulla la voragine, l'abisso dell'Essere, la grande frana; è il Nulla che porta in sé il germe della corruzione e della morte. è contro il Nulla la inesauribile fatica dell'Essere: al fine di salvare le sue amate creature. Ancora dunque, e sempre il dramma dell'Essere, e cioè la lotta di Dio contro il Nulla."

"Più adatta a esprimere il Nulla è precisamente l'immagine della tenebra: la Tenebra e la Notte, l'assoluta Notte, come assenza di ogni luce. Il Nulla di sua natura è tenebroso, quanto l'Essere è chiarezza e luce. Le due immagini sono ontologiche e strutturali all'intera creazione: un Nulla altrettanto onnicomprensivo quanto l'Essere. è così: lo stesso Essere ha bisogno del Nulla. Di Nulla sono sustanziate le cose; è il Nulla il confine di Dio e delle cose: germe di ogni morte. Là sulla sua sponda si assesterà l'Essere con la sua volontà implacabile, affinché non solo le cose esistano ma continuino a sussistere."

è dal Nulla che noi deriviamo. Noi portiamo dentro il Nulla come il virus della corrosione. Pascal dice che siamo in cammino dal Nulla verso il Tutto. Si tratta di un nulla sempre presente, sempre affiancante l'impresa della vita. Un Nulla nel cui abisso ora possiamo trovarci per infiniti fattori che si intersicano in questo complessissimo gioco delle nostre libertà; di noi, comunque, protagonisti nell'infinito mondo delle cause seconde. Fino al punto di invertire il cammino della genesi che era dal Nulla verso il Tutto, e trovarci precisamente sulla strada del ritorno: dal Tutto verso il Nulla.

L'uomo crederà mai alla morte? [...] Io non credo che qui si parli di morte in quanto disgregazione di ogni composto. Qui si deve nascondere qualcosa di più grave. Morte come opposizione all'Essere? Sì, morte come distruzione di ogni comunione con la Vita, come eterna solitudine. Morte come condizione dell'Io condannato a franare passando di morte in morte: appunto, a morire la morte, come suona nella Vulgata. Anche se la riduzione al Nulla assoluto, quasi non si fosse mai esistiti, non è possibile, nemmeno attraverso l'appello all'onnipotenza dell'Essere. Nessuna onnipotenza può fare che tu non sia esistito, Altro deve nascondersi nell'infinito silenzio della morte. Male supremo potrebbe essere questo: che si esisterà sempre, che si continuerebbe ad esistere: soli, senza mai essere. Franando continuamente nella morte, di morte in morte, ripeto, verso il Nulla che pure rimarrà a una distanza infinita: gravitando giù nell'abisso anziché verso l'Essere. [...] Una morte che può essere sempre altrove, strutturata alla stessa esistenza.

Contro l'irrazionale non ci sono strumenti logici. La logica è inerme e impotente di fronte all'irrazionale. Il male, che è l'evento irrazionale per definizione, non ha spiegazioni. Male è mettersi a discorrere con l'irrazionale. L'insidia è metafisica e rimanda al conflitto della stessa luce contro la tenebra.

Ciò che sorprende è che il primo gesto dell'uomo sia un peccato. Che il peccato sia congenito alla natura, appartenente alla storia di tutti e di sempre: peccato come parte costitutiva della stessa ontologia dell'Io: "peccatore mi concepì mia madre". Quale sia il peccato a porre la mia identità (*). E dunque peccato come fondazione coscienziale dell'autonomia dell'Io? Come vendetta ontologica del Nulla? "In me abitò il peccato e io morii..."

(*) Parere di Lunaria: se poniamo il concetto di "colpa" al posto del più generico "peccato", avremo una delle situazioni più comuni di disagio esistenziale al femminile.

Dell'esistenza poi, è perfino superfluo dire: essa non è che il nulla nella speranza di essere. In quanto spera, esiste; ed è orientata ad essere; è attratta dall'Essere. In quanto è nulla non fa che tendere verso la morte, verso l'oltre-morte, che è appunto il Nulla. è quanto sta alla radice del mondo: ciò che sta sotto, nel fondo della grande Allegoria. E a salvarci non può provvedere che l'Essere: pena la sua sconfitta, più che la sconfitta dell'esistenza, più che la sconfitta dell'Io.


Essere nuovi come la luce a ogni alba
come il volo degli uccelli
e le gocce di rugiada:
come il volto dell'uomo
come gli occhi dei fanciulli
come l'acqua delle fonti:

vedere
la creazione emergere
dalla notte!

Non vi sono fatti precedenti:
non parlate di millenni
o di giorni o di altri millenni.

Né creatura alcuna correrà
il rischio di essere sazia:
principio altro principio genera
in vite irrepetibili
come le primavere.

Io debbo essere un segno mai visto
ipostasi del non visto prima,
goccia consapevole o perla nella notte,
il lucente attimo d'Iddio
che per me solamente
così si riveli e comunichi.

Unico male l'abitudine
e la scelta tragica:
discorrere invece che intuire.

E la mente si popola di idoli
e il cuore è un deserto lunare:
solo la Meraviglia ci potrà salvare
aprendo il varco
verso la Sostanza.

Allora il medesimo silenzio dell'origine
nuovamente fascerà le cose,
o eromperà - uguale
evento - il canto.



In questo slancio finale
non cedere, mio cuore,
alle sovrane stanchezze

non sarà certo
lunga l'attesa

e non perdere tempo

e questo mio essere presente
questo darmi ancora
e lasciarmi divorare, dica

con quale umile
e grata
e diuturna
passione, vita

io ti amavo, e come
ora con la morte
- ultimo dovere -
vorrei sdebitarmi

e pagare lietamente
il pedaggio d'entrata...



"Se nessuna forma bellezza incorpori"

(qualche verso)

Se nessuna forma bellezza incorpori
e di un suono almeno la stessa
mente non avverta una eco
e ancora il pensiero un riverbero
di luce non colga: non certo
dalla Fonte -, non colga dico
appena un riflesso sul "miro gurgite",
se corpo nessuno vi sia, anche là,
e riparo dall'abisso, già ora
la più nera oscurità ti divora.

è assoluta
la necessità dell'Immagine!
Il corpo: la scialuppa che ti salva
sull'oceano del Nulla.

Dio e il Nulla - se pure
l'uno dall'altro si dissocia
senza voce sono nell'assenza.



"Sul piano della luce"

(qualche verso)

Tu impersonale andrai
nel moto uniforme,
dirai la comune parola
su questo tempo immobile
nel rito d'inconsce abitudini.

E non sai di scandire un ritmo eterno
entro un nodo di linee e fiamme
che legano anima e cose
in spirali azzurre
sotto archi di millenni.

Dalla curva della mano raggi
compongono nel tempo solare
il poema che dentro conchiudi
di vive sillabe come
anima di oceani conchiglia.
I sensi e i gesti fioriscono
nella pietra e nello spazio fissi.

Ma un perduto attimo appena
il crollo di un'ora può segnare
il cedimento di mondi e stelle a frana,
uno sfasciarsi di giorni e di pietre
interminabile.

Allora il sogno sarà
mozzato arco nella notte,
e il tuo corpo è un groviglio
di linee infrante
sul piano della luce morta.



"Cuore delle meridiane"

Reviviscenze magiche
di remotissimi tempi senza memoria:
d'ogni lato ti circonda
una presenza sola.

Arene e stelle ti abitano
vivi enigmi, tu profeta
di celesti messaggi
incombi a te stesso ignoto;

quando un gesto fai
tutto immobilmente si muove,
e sempre ti offri all'abisso
uguale a bacca di rovi al vento.

Sopra il tuo capo passano
- e tu non sai dove e donde
traggono origine e fine -
le trasversali dell'infinito.



O tu, fonte di ogni coscienza,
se appena una frazione
di attimo trattieni
il tuo alito

subito frana
l'universo intero;

ma pure allora Coscienza
non può finire:

nulla
potrebbe più dire di te

e neppure del Nulla.



è di sabbia la nostra carne, le mani
rami d'alberi, e gli occhi di perla,
e il sangue, onde di germi,
forse noi stessi particole d'esseri
non nati ancora.


Un sogno perfino ti spinge a varcare
il confine della tua solitudine,
un sogno che rende anche le cose insonni!


Per quanto, se tale Coscienza
non ti sia di specchio, e gli infiniti
corpi di te non rifrangano almeno
bagliori, mai avresti un senso:
perduto, anche tu, e senza gloria.


Almeno incatenare il Nulla, o Dio!
E vincere il Male
offesa dell'universo...

Ma poiché tu non puoi non stare
al libero gioco, anche tu
sei un Dio in pena, e noi
il tuo dramma di essere Dio.


Tu credi che la luce sia luce.
è invece lievissima neve
pagliuzze d'oro e lana finissima
che fascia le ferite della terra
e vela, nei suoi amori, il mare.

è il mare, il grande mare, l'inquieto
seno e matrice d'ogni vita.
E la luna che si adagia sul mare
e il sole poi, nel giorno, ad ardere
su tutte le pietre e le selve nate dal mare.


No, non sei tu l'abisso insondabile
non tu la spada mentale
che ci dilania:

tua e nostra rovina è l'altro
abisso: così

nell'infinita tensione
che dentro ti rode
natura erompe
per innumeri mondi...

Tuo dramma inenarrabile
è fare argine...


E dunque rivelaci
almeno la tua parte
e cosa celi la Notte
nel nostro sangue


Può certo il fuoco morire
in seno alla terra
e placarsi il mare;
può non fiorire primavera,
ma questo cuore è impossibile
che non si illuda ancora:
neppure la morte...


Già da un'alba morta all'inizio
di un cammino per notte opaca
mi segui nuda,
tutta simile a me
e con ali immani mi copri:
"faccio perché non precipiti"
mi dici con denti aguzzi di Jena,
e non sai che il tuo occhio è un abisso.
Tu non vedi; il nostro
passo è fatale.
Burroni di ossa e di carne
marcite stanno sulla via.
Tu porti i crani a collana
e sorridi serena
e il tuo sorriso mi fermerà il sangue.



Così, da solo, fuggiasco anche da se stesso, addentrandosi sempre più nella foresta, a fluttuare nell'immane vuoto, dilaniato dal Baratro dell'Essere con il Nulla

Sempre sul ciglio dei due abissi
tu devi camminare e non sapere
quale seduzione
se del Nulla o del Tutto
ti abbatterà...


Il pensiero
ferisce la carne.



A Te, oceano oscuro
io onda esausta sulla rupe
in un risucchio agli arginii.

Un gemito solo, ci avvolge nebbia
ove ogni speranza è fusa.
Io non so dire se queste
siano cose o segni.

Non le parole Ti si addicono,
non un nome.
Anch'essi grevi di terra
di spazio, di suono.

Incrudisce la Tua presenza
sotto il nostro incedere,
o tenebrosa fonte del canto.



Ma quando da morte passerò alla vita,
sento già che dovrò darti ragione, Signore.
E come un punto sarà nella memoria
questo mare di giorni.
Allora avrò capito come belli
erano i salmi della sera;
e quanta rugiada spargevi
con delicate mani, la notte, dei prati,
non visto. Mi ricorderò del lichene
che un giorno avevi fatto nascere
sul muro diroccato del Convento,
e sarà come un albero immenso,
a coprire le macerie. Allora
riuidirò la dolcezza degli squilli mattutini
per cui tanta malinconia sentii
ad ogni incontro con la luce.
Allora saprò la pazienza
con cui m'attendevi; e quanto
mi preparavi, con amore, alle nozze.


Pur traendoci Tu con la tua voluttà
di essere che mai
finisce di donarsi, mai
che l'informe si arrenda
e che sia vinta la tenebra: mai
abbattuto il confine del sesto giorno!


Tu infuocato oceano dell'essere,
noi tua unica sponda: segni
venuti dal Nulla appena
"istanti" sulle onde...


Era quella la vita
che dovevamo vivere,
non quella che abbiamo scelto
per follia, questa
che ci divora
e ci rende atomi di solitudine


è assoluta
la necessità dell'Immagine!
Il corpo: scialuppa che ti salva
sull'oceano del Nulla

Dio e il Nulla - se pure
l'uno dall'altro si dissocia -
senza voce sono nell'assenza.


E sempre più remoto stai
nel tuo maniero,
unico segno
il tuo silenzio:

silenzio più alto
del silenzio astrale...

ma non è il tuo silenzio
che più mi affligge,

è il mio non tacere,

O Silenzio!



Rabbrividite parole
ancor prima di raggiungere un suono:

frantumi
sul pavimento del tempio:

e non un frammento
almeno di vetro

che riluca.


Questo mio poetare
è ancora un gioco di farfalle
in volo senza direzione

e tutte cadono a terra
con le ali bruciate.



Un'alba in abito da sposa:

sta forse per sorgere
il nostro giorno?

Tutti e due usciamo insieme,
Signore, dalla Notte.



Che almeno il canto indori
la nostra solitudine.


E inabissarmi
nel mare che non ha sponde

e più non esistere...



Appena udibile, nel silenzio,
il fruscio delle nostre passioncelle
del quotidiano, uguale
a un crepitare di foglie
sull'erba disseccata.


Invece nulla:
un nulla
che ti invanisce, fino
a renderti pura coscienza:
un punto
a pensare a lui.


"Ancora a Moneglia"

Ancora sulla spiaggia a Moneglia,
quando d'improvviso ho visto
il tuo volto tra le nubi

un diadema di luce
ti cingeva il capo, e raggi a fasci
si irradiavan sul mare.

Era il mare un tappeto di oro
ai tuoi piedi:

non più
corone di spine e sangue,
non più patiboli!...

Ma la sola
eco al mio grido era
lo sciabordio delle onde.


Un campo sterminato di rovine
è la memoria:

nulla che non fosse male
mi rimase estraneo.


E dire nell'immobile silenzio
quanto mai ci fu dato
di affidare a parole.


Quando solo
di misteriose risonanze
si snodano

parole
per spazi impraticabili
e verità si denudano.


Una perla di luce
a riflettere l'universo

e poi solo
"sovrumani silenzi".


"La spada mentale"

No, non sei tu l'abisso insondabile
non tu la spada mentale
che ci dilania:

tua è nostra rovina è l'altro
abisso: e così

nell'infinita tensione
che dentro ti rode
natura erompe
per innumeri mondi:

e ogni creatura
ti muore tra le mani,
nel mentre che si forma
e fiorisce.


Tu non puoi non essere
Tu devi essere

pure se il Nulla
è il tuo oceano.



"Là, fate silenzio"

Ma non una spinta Tu
gli levesti dalla corona.

Trafitto anche il pensiero;
non può, non può lassù
il pensiero non sanguinare!

Oh, le ferite della mente!



è già un infinito la polvere
sul ciglio del Nulla.


"Il limite salvatore"

Ma non è il Nulla che ti salva?
è il Nulla che le cose rende distinte
e libertà garantisce,
pur se dal Nulla germina la Morte.


Nel mentre continuano a fiorire dal Nulla le cose
ognuna con il suo germe di morte.


Gloria alla tua fatica di essere,
di essere sempre, di continuare ad essere!

Ma è per il Nulla che sei te stesso,
senza il Nulla Tu saresti ogni cosa
e tutto sarebbe indistinto ed immobile.


***

"Carissimo, il nulla è qualcosa, lo dice Dio"

è questa la sostanza della lettera inviata dal diacono Fredegiso a Carlo Magno, forse nell'anno 800. Fredegiso sembra che provenisse da York, come il suo maestro Alcuino che aveva diretto la scuola palatina voluta da Carlo Magno.
La lettera è molto breve: sei pagine circa, e si rivolge a Carlo Magno.
Era opinione prevalente che il nulla e le tenebre, di cui parlano i testi sacri, fossero "nulla" cioè assenza assoluta di essere. La tesi di Fredegiso è del tutto opposta, e la sostiene con argomenti ricavati dalla dimostrazione razionale e poi dall'autorità biblica, cioè divina.
Gli argomenti ricavati dalla ragione si svolgono secondo le procedure sillogistiche apprese dalla logica aristotelica: "Procediamo quindi con la ragione. Ogni nome finito significa qualcosa. Per esempio, "uomo", "pietra", "legno". Non appena queste parole vengono pronunciate noi comprendiamo le cose che esse significano. Quindi se "nulla" è un nome, come sostengono i grammatici, esso è un nome finito. Ma ogni nome finito significa qualcosa. Ora è impossibile che questo qualcosa finito non sia alcunché. è impossibile che nulla, che è finito, non sia alcunchè. E in questo modo può essere dimostrato che esso esiste.
Se poi si passa all'autorità divina, espressa nei testi biblici, si può anzi si deve pervenire alle stesse conclusioni. Nei testi biblici si afferma infatti "che la potenza divina ha prodotto terra, acqua, aria e fuoco, insieme con la luce, gli angeli e l'anima umana, dal "nulla".
Per questo essa dichiara che le cose prime e massime fra le creature sono prodotte dal nulla. Pertanto, nulla è un qualcosa grande e distinto.
Un discorso analogo viene fatto per le "tenebre", che molti affermano non esistenti.
"E le tenebre stavano sopra l'abisso", e se non esistevano, come facevano a "stare"?

La ragione generale per la quale bisogna riconoscere "realtà" sia al "nulla" sia alle "tenebre" viene individuata da Fredegiso nel fatto seguente: "Il creatore ha impresso nomi sulle cose che egli ha fatto, così che ogni cosa sarebbe stata conosciuta quando fosse chiamata col suo nome. Né egli formò alcuna cosa senza il nome di essa né stabilì alcun nome a meno che non esistesse ciò che aveva stabilito. Se le cose stessero così, sembrerebbe interamente superfluo (il nome per la cosa). Ed è empio dire che Dio ha fatto questo."

Carlo Magno si fece leggere la lettera e poi la fece circolare per sentire qualche parere in merito. Un certo Agobardo respinse le tesi di Fredegiso sostenendo che la grammatica non deve dettare legge alla religione e che pertanto bisogna saper leggere il vero significato delle parole bibliche che all'attento cristiano appaiono chiare (*): il nulla è nulla, e non qualche cosa di esistente, e Dio ha creato il mondo proprio dal nulla e non da qualche cosa. Sotto sotto, come si può ben vedere, dietro la lettura "grammaticale" di Fredegiso serpeggiava l'eresia che afferma l'eternità del mondo, o almeno della "materia" da cui il nome sarebbe stato fatto da Dio: l'eresia, cioè, proveniente dal lontano mondo del Demiurgo di Platone.

(*) Frecciatina di Lunaria: se per questo nei vangeli si afferma chiaramente che Gesù avesse fratelli e sorelle... Ma vedi, caro Agobardo, non tutti i cristiani sono sempre attenti alla chiarezza delle parole evangeliche o bibliche...