Leopold Sedar Senghor e Aimè Cèsaire


Negli ultimi mesi mi sono imbattuta, approfondendo l'impegno civile di Sartre, anche negli Intellettuali Neri che,nei primi del '900 e poi per tutto il secolo, hanno combattuto, protestato e lottato per il riconoscimento dei diritti civili.
I due più famosi e più "facilmente reperibili" - si fa per dire, perché io sono riuscita a trovare solo due libri, eppure ce ne dovrebbero essere un bel po'! - sono Leopold Sedar Senghor -Filosofo e pensatore - e Aimè Cèsaire - Poeta -.

Senghor è stato colui che ha ideato il concetto di "Nègritude", con cui, a suo parere, tutti i popoli africani, anche quelli caraibici colonizzati e discendenti dagli schiavi, avrebbero dovuto unirsi per ritrovare una propria identità comune, basata soprattutto sulla condivisione dell'enorme carico di sofferenza che "il padrone bianco" aveva provocato nei secoli, prima distruggendo la cultura africana e poi deportando gli africani come schiavi destinati ai campi, "convertendoli" ai "valori bianchi" per poter instillare meglio il senso di odio di sé, e delle proprie radici, una sorta di "negrofobia" di se stessi.

Un gruppo di intellettuali (Kagame, Sekou Tourè, Rabemananjara,
i poeti parnassiani martinicani Banville e Heredia, Andrèè Nardal, fondatrice della rivista "Revue du monde noir", Damas - collaboratore di Sènghor - e l'autore teatrale Kouyata) dedicano tutto il loro impegno culturale e civile, soprattutto in Francia, per la "costruzione" di una cultura africana, che si staccasse dagli stessi pregiudizi di inferiorità instillati dai bianchi, e che fosse la riscoperta della cultura degli avi, intrisa di misticismo, animismo, magia, contatto con la natura, riscoperta del corpo e dei ritmi naturali.

Vediamo meglio il concetto di Leopold Sedar Senghor (Senegal) padre della Filosofia "Nera" che a partire dagli anni '50 (con studi di metafisica legati alle tradizioni culturali africane e non greche, a cura di Kagame) teorizza il concetto di Nègritude
partendo da concetti esistenziali e fenomenologici... appoggiati anche da Sartre.

"Coscienza di essere nero, semplice riconoscimento di un fatto che implica accettazione, presa in carico del proprio destino di nero, della propria storia e cultura. è innanzittutto una negazione, il rifiuto di assimilarsi e di perdersi nell'altro.
Il rifiuto dell'altro è affermazione di sé."

Birago Diop traduce invece i racconti mitologici di Amadou Koumba, trovatore senegalese, e un grande contributo viene anche dato dagli scultori cubisti e artisti surrealisti che "riscoprono", riproponendola, l'arte africana - vedasi per esempio Modigliani o lo stesso Picasso -


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Aimè Cèsaire


Trascrivo qualche verso, purtroppo incompleto, - non ho reperito nient'altro.... - di Cèsaire, che rende alla perfezione il tragico destino di un popolo oppresso e schiavizzato per secoli.

La poesia di Cèsaire è una poesia spesso brutale, che "gioca" con gli stereotipi che "il padrone bianco" per secoli ebbe sugli schiavi (cannibalismo, violenze ecc) - da notare che Cèsaire è anche "anticristiano", vedendo nel cristianesimo imposto agli schiavi, un ulteriore violenza e supremazia ("Noi bianchi siamo stati prescelti da Dio per guidare voi negri che siete selvaggi e bambini") mentre Senghor non rifiuta alcuni insegnamenti della dottrina cattolica.

Alcuni versi di Cèsaire rimandano a una poesia di stampo surrealista.

Ritengo che valga la pena soffermarsi a riflettere su versi come:


Sento dalla stiva salire le maledizioni incatenate
i gemiti dei moribondi
il rumore di qualcuno gettato in mare 
i lamenti di una partoriente 
raschiature di unghie che cercano gole.... 
ghigni di fruste......


Colpito da verghe
esposto alle bestie
trascinato in camicia con la corda al collo
innaffiato di petrolio
e ho atteso....
e ho bevuto urina
calpestato
tradito
venduto
e ho mangiato escrementi
e ho acquistato la forza di parlare
più forte dei fiumi 
più forte dei disastri.


Angoscia non affonderai le tue chiome nella gora della mia gola... il filo rosso del sangue della ragione del diritto.



L'Africa non è più 
al diamante della sfortuna
un cuore nero che si stria...
è una mano tumefatta
una - ferita- mano - aperta
tesa.


Questo dolore poi nulla
dove noi due nel fianco della notte vischiosa oggi
come un tempo
schiavi stivati di cuori pesanti
ugualmente mia cara ugualmente
noi veleggiamo.


La catastrofe si è fatta un trono troppo alto abitato
dal delirio della città distrutta: è la mia vita incendiata.


Noi siamo coloro che furono spogliati 
che furono colpiti
che furono mutilati
coloro che furono marcati
coloro ai quali si sputava in faccia... Chi dubitava che l'uomo non potesse essere uomo
non aveva che da guardarci.


Un paese di silenzio
di ossa calcinate di sarmenti bruciati
di uragani di grida trattenute...
Un paese di sete
dove è vano ancorarsi a un profilo assurdo di alberi totem e 
di tamburi.


 Per chi volesse saperne di più:

- Cristina Brambilla: "La Nègritudine"
- J.P. Sartre: "Che cos'è la letteratura?"
- "Antologia di poeti negri" a cura di Carlo Bo
- Graziano Benelli: "Cèsaire"



Ora, le Poesie di Senghor!

Léopold Sédar Senghor è il Padre della Négritude, il grande movimento della specificità culturale africana, è un cantore sublime dell'unità dell'uomo e della natura.
Senghor fu eletto primo Presidente della Repubblica del Senegal nel 1960, dopo la liberazione dal colonialismo francese, e ha guidato il suo paese per vent'anni: lui cristiano, in un paese musulmano, a dimostrazione della tolleranza religiosa esistente in Senegal.


"Maschera Negra" (a Pablo Picasso)

Lei dorme, riposa sul candore della sabbia.
Koumba Tam dorme. Una palma verde vela la febbre dei capelli, color di rame la fronte curva.
Le palpebre chiuse, coppa duplice e sorgenti sigillate.
Questa falce sottile di luna. Questo labbro più nero e appena tumido,
dov'è il sorriso della donna complice?
Le patene delle gote, il disegno del mento, cantano l'accordo muto.
Viso di maschera chiuso all'effimero, senza occhi, senza materia.
Testa di bronzo perfetta con la patina del tempo.
Che non imbrattano belletti, né rossetti, né rughe, né tracce di lacrime o di baci.
O viso tale come Dio t'ha creato prima della memoria stessa dell'età.
Viso dell'alba del mondo, non ti aprire come una gola tenera per commuovere la mia carne.
Io ti adoro, O Bellezza, con il mio occhio monocorde!



"Ho filato per te una canzone"

Ho filato per te una canzone dolce come un turbante di colomba a mezzogiorno.
E mi accompagnava flebile il mio khalam tetracorde.
Ti ho tessuto una canzone e tu mi hai sentito.
Ti ho offerto fiori selvaggi dal profumo misterioso come gli occhi dello stregone.
E il loro splendore ha la ricchezza del crepuscolo a Sagomar.
Ti ho offerto i miei fiori selvaggi. Li lascerai appassire
o tu che ti distrai al gioco delle cose effimere?



"Elegia degli Alisei" (a mia moglie Colette)

(qualche verso)

Questo luglio, cinque anni di silenzio, dopo le trombe d'argento. Bisognava pure guidare il gregge attraverso tann e harmattan. Perchè la libertà è il deserto.
Ora che svaniti sono i miraggi, all'ombra dei tamarindi, voglio abbeverare di miele fulvo il mio gregge di teste lanute,
cantargli parole di vita forti come l'alcool di miglio.
Canterò il muso umido e la bianca veste e le corna d'oro della mia giovenca, alla festa d'Ognissanti della mia Infanzia, canterò il ritorno degli Alisei.
Tornadi tornadi di Luglio! Vortici cannoni cannoni del Quattordici Luglio!
Portate le bandiere dinnanzi alla collera di Dio, dinnanzi all'abbondanza di Dio.
Tornadi foschi dell'azzurro, e sulla terra cosparsa di fiori di flamboyant
come bianche vesti sacrificate.
E niente sonno, o tornado! Quando tutto dorme al riparo dei lampi
cullato dall'urlo del vento, io grido ululando, la faccia riversa
e come leone notturno sui tristi altipiani
vago intorno a qualche assenza? Grandi gli stalli e vuoto il gineceo come relitto di mare.
Assente, assente, tu sola assente o mia Presenza, mia Sopè
tu, relitto di sabbia e di tenerezza, fiume di delizie
e le colline del Nord, colline azzurre del sogno di questa notte
la stagione delle piogge mi invade. Ha preso possesso del mio petto, sentinelle alle porte dell'aorta.
E il verde che si rifiuta di diventare tenebra; e le sterili graminacee,
campo di arachidi della mia testa.
I rettili molli hanno strisciato sotto le mie ginocchia.
Piove a dirotto su Dakar sui piloni del Capo Verde; sono gonfio di acqua insipida come una papaia sotto le piogge.

Io, Il Maestro di lingua, non posso sopportare; questo sangue caldo monotono e questo pullulare fetido
questi miasmi mosche zanzare e febbre, questi deliri invernali nella stagione delle piogge
Quando si pensa dolcemente alla propria madre e agli amori di un tempo
prima di sprofondare nel niente spalancato.

La mia negritudine non è affatto sonno della razza ma sole dell'anima,
la mia negritudine è visione e vita
la mia negritudine è cazzuola nella mano, è lancia in pugno.

Il mio compito è di svegliare il mio popolo alla fioritura dei flamboyant
la mia gioia è creare immagini per nutrirlo, oh luci ritmate della Parola!

No, non sono un principe dalla benda color porpora, perizoma classico, petto crocifisso di cauri bianchi.
Non sono il ghepardo della Nubia il gonolek di Barberia.
Ma il combassou del Senegal, ho messo la mia livrea grigia.
Scende la sera, mentre i tam-tam lanciano il richiamo
che io mi fermi sotto la Via Lattea, per ascoltare nel vento tra i palmizi
il lamento delle poetesse.

O dalla madre di tua madre dal capo di neve, sotto gli antenati incipriati di gigli,
per ritornare al regno dell'infanzia?
Eccoti perduta per ritrovarmi nel labirinto delle pervinche, sulla montagna meravigliosa delle primule.
Non dare ascolto ai licaoni. Urlano sotto la luna, ferocemente inseguendo i daini del sogno.
Ma canta sulla mia assenza i tuoi occhi di brezza alisea e che l'Assente sia presenza.
Sferzami, tenerezza, dolcezza del ciclamino, luce dei sottoboschi di settembre: io bevo forze fresche
solidamente per affrontare l'ascensione del sangue grondante delle maree d'equinozio
gli ultimi tornadi, ottobre i suoi morti e i suoi cortei -è il mio compleanno
l'ossessione delle Maschere, mezzanotte! E bisogna costruire sotto la rugiada dell'alba.


"E il trasalire improvviso"

E il trasalire improvviso, sotto il fresco fruscio come un colpo di pugnale. Vado girando, impazzito come le falene attorno alla lanterna, bruciandomi le ali dell'anima al canto di sirena delle tue lettere. Ed eccomi straziato, calcinato, tra la paura della morte e lo spavento del vivere.
Ma non c'è libro alcuno che dia refrigerio alla mia angoscia.
L'anima è più secca del Sahara.
Ecco le amare ceneri del mio cuore, quasi un fiore secco.
Tu sola puoi salvarmi, speranza mia, e la tua presenza.
Tu mio presente, mio indicativo, mio imperfetto
Tu mia perfetta, non le tue lettere, le tue labbra sole dell'eterna estate, ti aspetto nell'attesa di risuscitare.



"E il disco infuocato del sole"

E il disco infuocato del sole declina nel mare vermiglio. Ai confini della foresta e dell'abisso, mi perdo nel dedalo del sentiero. L'odore mi insegue forte e altero, a pungere le mie narici
Deliziosamente. Mi insegue e tu mi insegui, mio doppio. Il sole si immerge nell'angoscia. In una messe di luci, in un'esultanza di colori e di grida irose. Una piroga sottile come un ago nella ferma intensità del mare, uno che rema e il suo doppio.
Sanguinano le rocce di Capo Nase, quando lontano si accende il faro delle Mamelles.
Al pensiero di te, così mi trafigge la malinconia.
Penso a te quando cammino e quando nuoto,
seduto o in piedi,  penso a te mattina e sera,
la notte quando piango e sì, anche quando sono felice
quando parlo e mi parlo e quando taccio
nelle mie gioie e nelle mie pene. Quando penso e non penso,
Cara penso a te.


"Per tutta la notte ha piovuto"

Per tutta la notte ha piovuto.
Pensavo a te sotto il lampeggiare sulfureo delle tenebre.
Il mare sbavava sui frangenti di tegole verdi, il mare mugghiante,
sotto il tuono e il tornado, noi gemevamo sotto l'angelo della morte di un lamento lungo e così dolce.
Eccomi nel baratro del palazzo sonoro
fra i sudori e le emicranie, come a Dylor,
mia madre fasciava le mie angosce con i fiori di manioca, facendole sanguinare.
A Joal come una volta, c'è quel malessere a respirare che s'aggrappa vischioso alla passione.
Questa febbre nelle viscere, la sera all'ora delle paure primordiali.
Sogno i sogni della giovinezza.
Il mio amico Straniero parlava della freschezza dei prati a settembre.
E le rose di Tinchebray iridate nel candore del mattino.
Sognavo d'una fanciulla dal cuore odoroso,
nell'ira o nel delirio i suoi occhi lampeggiavano
di zolfo come te - non è vero? - come la notte dei giorni d'inverno.


"Il mio saluto"

Il mio saluto come un'ala chiara
per dirti questo:
finito il primo sonno, dopo la tua lettera, nel buio e la fanghiglia,
in fondo a paldi angosce di prigioni, nella corrente fluente
dei sogni morti, come teste di bambini il Fiume perduto
non avevo che tre scelte: lavoro crapula o suicidio.
Ho scelto la quarta, bere i tuoi occhi-ricordo
sole d'oro sulla bianca rugiada, mio tenero prato.
Indovina perchè io non so perchè.



Concetto di Négritude

Perchè il dialogo? Per il bianco europeo, per la sua ragione discorsiva, ogni cosa è vera o falsa, buona o cattiva. Il mondo dei bianchi è quello della dicotomia e dell'opposizione. Il mondo dei blocchi. Per il negro-africano ogni cosa, ogni forza è di per sé un nodo di forze più elementari, maschili e femminili per esempio, la cui realizzazione personale può provenire soltanto dall'accordo di questi elementi: dal loro dialogo. Dialogo interiore, intra-personale, ma anche dialogo inter-personale, fra esseri o categorie di esseri complementari.
L'Ontologia negro-africana non è solamente unitaria: è esistenziale. Tutto il sistema è fondato sulla nozione di forza vitale. Essa, che pre-esiste all'essere, fa l'essere. Dio ha dato la forza vitale agli animali, ai vegetali, ai minerali, agli uomini: perchè essi sono. Ma questa forza ha la vocazione di crescere. Così l'esistenza si fonda sulla pre-esistenza per sbocciare in un'esistenza superiore. Da questo deriva il posto che occupa l'uomo nel sistema, nella sua qualità di esistente, cioè di vivente capace di aumentare la sua forza, di realizzarsi in una persona, sempre più libero in seno a una comunità solidale.
Il ritmo è l'architettura dell'essere, il dinamismo interno che gli dona forma. Il sistema di onde che l'essere emette in direzione degli altri. Esso si esprime coi mezzi più materiali: linee, superfici, colori, volumi, scultura e pittura, accenti in poesia e musica; movimento nella danza. In tal modo, orienta tutte queste cose concrete verso la luce dello spirito. Il ritmo negro si incontra con tutte le arti. Con procedimenti diversi, combinando il parallelismo e l'asimmetria, l'accentuazione e l'atonalità, i tempi forti, e i tempi deboli, introducendo la varietà, ossia la rottura; nella ripetizione, il ritmo nasce, si rafforza, acquista una funzione dominante, esprimendo così la tensione dell'essere nel suo atto di produrre qualcosa di essenziale. Il ritmo è, incontestabilmente, l'impronta della negritudine.
Ecco dunque i valori fondamentali della negritudine: un raro dono di emozione, una ontologia esistenziale e unitaria, che fa capo al surrealismo mistico, a un'arte impegnata e funzionale, collettiva e attuale, il cui stile si caratterizza attraverso l'immagine analogica e il parallelismo asimmetrico.
La mia conclusione è questa: la vera cultura è mettere radici e sradicarsi. Mettere radici nel più profondo della terra natia. Nella sua eredità spirituale. Ma è anche sradicarsi e cioè aprirsi alla pioggia e al sole, ai fecondi rapporti delle civiltà straniere...

(Estratto preso da "Poesie dell'Africa")


Négritude

"Coscienza di essere nero, semplice riconoscimento di un fatto che implica accettazione, presa in carico del proprio destino di nero, della propria storia e cultura. è innanzittutto una negazione, il rifiuto di assimilarsi e di perdersi nell'altro. Il rifiuto dell'altro è affermazione di Sé."