Stralci vari, romanzi


Da "Melmoth, l'Uomo Errante" di Charles Robert Maturin (1782-1824)

"Non me ne importa niente... sono sul ciglio di un precipizio... mi ci devo tuffare... e che gli spettatori si lamentino o meno, mi interessa poco."
"Eppure hai affermato che vuoi morire!"
"Voglio... macché, sono impaziente! Sono un orologio che da sessant'anni segna gli stessi minuti, suona le stesse ore! Non è forse ora che il meccanismo voglia essere ricaricato? La monotonia della mia esistenza farebbe desiderare qualsiasi cambiamento, fosse pure il dolore. Sono stanco, e vorrei cambiare stato, ecco tutto (...) Ma se condanni l'uomo alla sofferenza e all'idiozia insieme, si sommano le pene dell'inferno e dell'annientamento. Per sessant'anni ho maledetto la mia esistenza. Non mi sono mai svegliato con una speranza, perché non avevo niente da fare o aspettarmi (...) Chi, come me, riesce a ridurre la sua infelicità condividendola come un ragno che diminuisce la tensione del veleno che lo gonfia iniettandone una goccia in ogni insetto che si dibatte, agonizza e muore come te nella sua ragnatela"


Da "Io discendo nella barca del Sole" di Eugen Drewermann

Dovremo anzitutto occuparci dell'esperienza della morte ovvero dell'ineludibile riconoscimento di quanto sia effimera la nostra vita, per comprendere chi siamo in questa realtà mondana e cosa speriamo per la nostra esistenza. Che cosa siamo noi uomini di fronte all'onnipotenza della morte? Oppure, rovesciando la domanda: cos'è la morte, questa presenza che sempre ci accompagna, minacciosa e talvolta liberatrice, come abisso o rifugio, come tomba o grazia, a seconda delle nostre sorti?
Una cosa è certa: soltanto chi è tanto temerario da amare alcunché su questa terra guarda preoccupato alla morte. Soltanto chi è stato deluso nei propri pensieri può, infine, giungere a cercare formalmente la morte. Eppure, proprio in questo caso, ciò cui si anela è una vita più vera. Siamo così arrivati al cardine di tutte le domande: quando viviamo liberamente?

Il desiderio di abbandonare questo mondo ha trovato una volta per tutte mirabile espressione in uno dei più antichi testi letterari dell'umanità risalente alla cultura antico-egizia, il "Dialogo di un uomo stanco della vita con la sua anima":

"Oggi ho visto davanti a me la morte. Un malato risana, se dopo la sventura ritorna nello spazio aperto. Oggi ho visto davanti a me la morte come profumo di mirra quando sediamo al riparo del sole nei giorni ventosi. Oggi ho visto davanti a me la morte come profumo di loto quando sediamo sulla riva dell'ebrezza. Oggi ho visto davanti a me la morte come il cessare della pioggia quando il contadino rientra a casa dal campo. Oggi ho visto davanti a me la morte come un cielo rischiarato. Oggi ho visto davanti a me la morte come colui che desideri rivedere la propria casa dopo aver trascorso lunghi anni di prigione."

"L'oltretomba è il luogo della nostra dimora, la meta del cuore; la patria è l'occaso, approdo del nostro viaggio. Farò un'ombra, sarà piacevolmente fresca, così potrai compiangere le altre anime che hanno troppo caldo. Berrò l'acqua alla fonte e lascerò sorgere l'ombra."

Esiste una terza via per affrontare la morte, che scaturisce direttamente dalla vacuità della vita ovvero dall'inanità dell'esistenza. Questo modo di sperimentare la morte è descritto da Hugo von Hofmannsthal in uno dei suoi drammi in versi, "Il folle e la morte". Claudio, seduto alla finestra, scruta la vita indaffarata della città e medita sulla smorta e fredda aridità della propria esistenza che non ha saputo trovare una ragione in alcun sofisma, né un senso in alcuna dottrina:

"Come fiori divelti che una torbida
acqua trascina nei suoi gorghi, gli anni
della mia gioventù sono trascorsi,
e non sapevo che ciò fosse esistere.
Mi circondava un pallido crepuscolo,
ero oppresso nell'intimo, sconvolto,
sentivo freddo il cuore, opachi i sentimenti
e preclusa in strada ogni realtà:
non sorsero tempeste a liberarmi,
non fui travolto dagli alti marosi,
il dio non si levò sulle mie peste
su cui combatti finché vinci o posi."

E questa, la risposta della Morte:

"Quello che a tutti spetta a te fu dato,
vivere in terra una vita terrena.
In ciascuno di voi soffia uno spirito
che dà a questo caos di cose morte
la sua proporzione e di un deserto
fa il giardino su cui felicità
fiorisce, ora vigore, ora disgusto.
Triste per te se appena oggi l'impari!
Si lega in questa terra e si è legati,
ci si espande in gioiose ore, si trema;
e si piange nel sogno e si è turbati,
si rinuncia, ancor trepidi di attesa,
caldi del soffio della vita, assorti
ma ogni cosa matura a me vien resa."

Non c'è interrogativo dell'esistenza umana che resterebbe immutato davanti alla consapevolezza della perenne presenza della morte.
Fra dolore, amore e noia, fra stanchezza, compassione e accidia, fra disperazione, desiderio e smarrimento si nascondono i tre diversi travestimenti in cui ci può apparire la morte.


Da "Schegge di Me" di Tahereh Mafi

 Pagina 14

Il mattino odora di pioggia. La stanza è satura del profumo di pietra bagnata, di terreno rivoltato; l'aria è umida e terrosa. Respiro a fondo, vado alla finestra in punta di piedi e schiaccio il naso contro il vetro freddo. Il respiro ne appanna la superficie. Chiudo gli occhi e ascolto il lieve picchiettio che fende il vento. Le gocce di pioggia sono le uniche a ricordarmi che le nuvole hanno un cuore che batte. E che ne ho uno anch'io. Le gocce di pioggia non smettono mai di stupirmi.

Pagina 30-31

A volte vorrei non avere bisogno di dormire. A volte penso che le cose cambierebbero se rimanessi ferma, fermissima, se non muovessi un solo muscolo. Sono convinta che immobilizzando me stessa, posso immobilizzare il dolore. A volte non mi muovo per ore. Non mi muovo di un solo centimetro. Nulla può andare male, se il tempo si ferma.

Pagina 36

Il Sole è una creatura arrogante, pronta a lasciarsi la terra alle spalle ogni volta che si stanca di noi. La Luna è una compagna fedele. Non va mai via. è sempre di guardia, risoluta, ci conosce con il buio e con la luce, e come noi è in continua trasformazione. Ogni giorno è una versione diversa di se stessa. A volte tenue e pallida, altre intensa e luminosa. La Luna sa cosa significa essere umani.
Insicuri. Soli. Butterati dalle imperfezioni.

Pagina 223

Senza dire una parola, Adam mi prende la mano. Gli stringo con forza le dita perchè d'un tratto ho il disperato bisogno di avere la certezza che il mio tocco non possa nuocergli. Ho il disperato bisogno di succhiare ogni goccia del suo essere, di assaporare le esperienze che finora non ho mai vissuto. D'un tratto mi assale il terrore che quest'evento straordinario abbia una data di scadenza.

La prospettiva di perderlo
La prospettiva di perderlo
La prospettiva di perderlo equivale a 100 anni di solitudine che mi rifiuto di immaginare. Mi rifiuto di privarmi del calore del suo corpo. Delle sue mani. Delle sue labbra... oh, le sue labbra. Della sua bocca sul mio collo. Dei nostri corpi che, avvinghiati, affermano che la mia esistenza non è inutile.


Umberto Veronesi, da "Dell'amore e del dolore delle donne"

"Era bellissima e non lo sapeva. [...] Avevo appena iniziato a lavorare all'Istituto nazionale tumori di Milano, erano gli anni Cinquanta, [...] e invece proprio lì e proprio a me toccò dirle, con le parole più chiare e meno dolorose che riuscì a trovare, che aveva un cancro al seno. Accolse la notizia senza un fremito, immobile e impassibile [...] Mi chiese semplicemente cosa dovevo fare, e io le prospettai la mastectomia totale: avrei dovuto asportarle la mammella. Anche a queste parole - una coltellata nella psiche femminile - reagì guardandomi fisso negli occhi con decisa rassegnazione. Nient'altro. Questa volta ero io che non capivo. Lei colse il mio imbarazzo e ruppe il silenzio. Voleva spiegarmi. "Vede, dottore, questa malattia ha colpito il mio seno per i miei peccati di sesso. Mi ha procurato troppo piacere sotto le carezze degli uomini. Ora Dio con il cancro me lo porta via, così non peccherò più. Anzi, insieme a questo mio seno, se ne andrà via da me anche il desiderio di altre carezze e altri baci, quel desiderio che mi ha fatto cadere tante volte in tentazione, e sarò infine libera da questa maledizione. Se poi non basterà e dovrò morire..." Per me, che avrei voluto a tutti i costi salvare il suo corpo adesso e non nell'aldilà [...] questa reazione era incomprensibile. "Ma che dice? Il suo Dio è il Dio di mia madre ed è buono e non può desiderare che lei soffra né che lei muoia." [...] Mi pentii quasi subito di ciò che avevo detto. Capii che quello era il suo modo di proteggersi: stava affrontando un dolore ingiusto, impossibile da spiegarsi, e allora l'unico modo di difendersene era cercare di sublimarlo. In seguito l'avrei visto fare a tanti altri credenti. Nella ricerca di un significato, aveva scelto quello più alto: aveva trasformato il suo tumore in un lasciapassare per la salvezza dell'anima. Pur di contrastare il dolore, fronteggiare qualcosa che era insieme incomprensibile e ineluttabile, si era rifugiata nel retaggio della società integralista cattolica in cui era nata, quella che vedeva in Dio un padre autoritario anzichè amorevole detentore di un potere al quale sottomettersi docilmente e in cui soffocare i propri dubbi. Non riuscire a trovare una ragione all'idea di doversi sottoporre a una mutilazione crudele e apparentemente inutile (un tumore di questo tipo non provoca dolore, e asportare il seno sembra assurdo), era per lei molto più angosciante che accettare la presenza di un Dio vendicatore, che in questa vita la puniva, ma in un'altra l'avrebbe salvata e portata con sé in Paradiso.
Dopo quell'incontro mi sono chiesto spesso se la fede sia davvero un sostegno per le donne. E se parliamo del rapporto con la malattia, o più in generale con la sofferenza, oggi sono convinto che la risposta è no [...] Mi sento di osare ancora un po' di più: la fede non aiuta neppure nel confronto con l'idea della morte, né nel momento della morte stessa. La mia esperienza medica mi ha insegnato che muore più serenamente colui che non crede, donna o uomo che sia. Nell'istante in cui il non credente prende coscienza che è giunto il tempo di andarsene, chiede solo di non soffrire: non si aspetta nulla, e soprattutto non teme nulla per ciò che verrà dopo. Non dobbiamo avere paura della morte perchè se c'è lei non ci siamo più noi, diceva Epicuro. Il credente, invece, è costretto a confrontarsi fino all'ultimo con il dubbio angosciante di non aver vissuto rettamente, di non essersi guadagnato un aldilà dignitoso, ed è assalito dai rimpianti o dai rimorsi: al dramma della morte si somma il dramma del senso di colpa."


Da "Lasciatemi morire" di Piergiorgio Welby

"Io amo la vita [...] Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso - morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio... [...] La morte non può essere "dignitosa"; [...] l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna."

"Sua Santità Benedetto XVI ha detto che di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo persino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale. Ma cosa c'è di naturale in una sala di rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è di naturale in in corpo tenuto biologicamente in funzione con l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata?"

"La morte è sì, qualche cosa che ci spaventa, ma è anche ciò che ci fa essere quello che siamo. Senza la morte, cioè senza questo destino che ci accompagna e che fa sì che noi dobbiamo finire nel nulla, cosa ne sarebbe delle nostre speranze, dei nostri progetti, del fatto, per l'appunto, che progettiamo in vista del nostro tramontare, che progettiamo per salvarci da questo tramonto, da questo naufragio? Sapendo però che naufragare dobbiamo."

"Dio non mi ha mai ascoltato, mai. Nemmeno quando mio padre, distrutto dal tumore alla laringe, tentava di respirare ma i suoi sforzi si concludevano in un rantolo strozzato che nemmeno il cortisone riusciva più a calmare. E avevo chiesto a Dio di far cessare quel tormento, avevo implorato piangendo: "Dio fallo morire, fallo morire adesso". Che senso aveva quell'agonia? Possibile che nessuno potesse far qualcosa per farla cessare? Mi ero chiesto, angosciato, se non esistesse un limite a quello che un uomo deve sopportare, ma neppure i medici mi avevano saputo rispondere."

"Ho paura di morire, ho paura di vivere. [...] Conosco solo la morte degli altri: amici, familiari, sconosciuti... ma la mia?"

"La notte aspetto e la pace, aperta sulla finestra dei neon pulsanti di chi ancora può, risale il viale d'alberi e oleandri. Il suono di passi affrettati, spiati dai vetri gialli di chi non può - di chi non dorme - resta sospeso nell'attesa di un'alba impossibile. Foglie verdi già marciscono e i corpi e l'aria intorno invocano un silenzio che nasconda la verità delle cartelle cliniche, che allontani lo sferragliare insolente dei carrelli della terapia. La notte è amica e percorre lenta i corridoi vuoti, le corsie di respiri spenti, il bisbigliare mistico incollato sulle labbra, le antiche preghiere ritagliate tra i ceri accesi e l'incenso di chiese infantili, vergogne sussurrate sulle grate ammuffite dei confessionali. Penitenze consumate in fretta sotto la Via Crucis, peccati e rimorsi lasciati affogare nell'acquasantiera della consuetudine. Tutto finito. Oggi non c'è perdono né penitenza, oggi esiste solo un castigo incomprensibile, una pena troppo grande per qualunque peccato. Anche il dolore è muto questa notte."

"L'orizzonte ha cucito col filo del silenzio i lembi del mare e del cielo imprigionandoci in un sudario azzurro. Ognuno cavalca solitario i propri incubi o i sogni che restano o inventa altri mari e altre rotte. Aspettiamo una vela lontana o un refolo di vento ma negli occhi rimbalzano immagini di infantili paure: serpenti di mare, kraken, tritoni, sirene, gorghi mostruosi. In silenzio aspettiamo che la notte spenga i nostri volti riflessi dall'opale infido del mare."

"Come scrive Euripide nelle Troiane: Il non nascere - dico - è uguale al morire, ma è meglio morire che vivere nel dolore."

Welby, a pagina 65 definisce il silenzio di Dio assordante, ma proprio per questo, "Chiederemo fino a quando cesserà almeno l'ingiustificabile silenzio dell'Uomo."


Da "La Storia Infinita" di Michael Ende

"Sta' a sentire", gorgogliò la Morla, "Noi siamo vecchi, piccolo, troppo vecchi. Abbiamo vissuto abbastanza. Abbiamo visto anche troppo. Per chi sa tante cose come ne sappiamo noi non c'è più nulla d'importante. Tutto si ripete in eterno, il giorno e la notte, l'estate e l'inverno, il mondo è vuoto e senza senso. Tutto gira soltanto in tondo. Ciò che comincia deve finire, ciò che prende vita deve poi morire. Tutto si compensa, Il Bene e il Male, Il Bello e il Brutto, la Stupidità e la Saggezza. Tutto è vuoto. Niente è reale. Niente è importante."


Da "La Rosa del Cavaliere" di Joanna Makepeace

"In questo momento non saprei come evitare questo destino, Arthur" rispose Rosamund debolmente. Era come inebetita, svuotata di ogni capacità di provare emozioni: si muoveva, respirava e parlava senza provare niente. 


Da "Giacinta" di Luigi Capuana

Viveva alla giornata, stordita da una pena crudele, che ella sentiva più del doppio perché doveva tenerla nascosta.
Ogni giorno che passava le pareva un tanto di guadagnato... ormai non restava che rovinare, rovinare in fondo al precipizio, da cui il destino l'aveva lanciata, ogni scossa, ogni contusione, ogni ferita che sentiva farsi nelle carni affrettava un fine inevitabile, quanto più presto, tanto meglio!
Brutto Destino quello di noi donne! Vi dobbiamo essere grate non già del male che dovreste volerci ma del male immeritato che vi astenete di farci!

Da "Tristessa" di Jack Kerouac

"Un male che continua quanto il bisogno, che alimenta il bisogno, che soddisfa simultaneamente il bisogno e così si lamenta tutto il giorno per il dolore."

"Stringere, stringere quel piccolo, fragile, inaccessibile corpo immateriale..."


Octavio Paz: riporto uno splendido commento critico all' opera di Dostoevskij "I demoni".

"Nietzsche immaginò l'avvento di un nichilista completo,incarnato nella figura del Superuomo che gioca, danza e ride nei giri dell'Eterno Ritorno.
La danza del Superuomo celebra l'insignificanza universale, l'evaporazione del senso e il sovvertimento dei valori.
Il vero Nichilista però non danza né ride:
va di qua e di là - intorno alla sua stanza o il che per lui è la stessa cosa, - intorno al mondo.
è condannato a girare continuamente, a parlare con i propri fantasmi.
Il suo male è una continua insoddisfazione, un non poter amare nessuno e nulla, un'agitazione senza oggetto, un disgusto di fronte a se stesso - e insieme un grande amore per se stesso. - La visione della sua caduta lo affascina...

come direbbe Quevedo, "Le acque dell'abisso dove m'innamoravo di me stesso"


Frasi prese da "Il Veleno del Ragno" (2004) di Maxime Chattam

- La Vita è una porcheria che ti corrode, non credi?

- Non erano amanti, non lo erano mai stati,
erano due solitudini a fior di pelle.


"Perché so da dove viene, la mia malattia non è orfana. è così: mi hanno dato una parte di loro, il lato nero dell'anima, si sono sbarazzati del lato nascosto della loro infamia. Si sentono leggeri e se ne vanno allegri in cerca di altri individui da derubare. Sono i miei nemici, persone che consideravo amiche e che hanno deciso di contaminarmi, forse perché non sopportavano che me ne fossi andato...Non sono mai stato aggredito da uno sconosciuto, in compenso quanti amici, o perlomeno quanti che cedevo tali, si sono permessi di mentirmi, di tradirmi, e di tradire impunemente la mia fiducia" ("L'Hammam" di Tahar Ben Jelloun)


Manlio Sgalambro, dal libro "La consolazione".

"Perché egli [qui Sgalambro intende chi studia la filosofia] potrebbe essere in una tensione negativa verso il sapere, potrebbe odiarlo, e tuttavia sarebbe egualmente filosofo proprio in virtù della suddetta tensione.
Potremmo in tal caso definirlo un "neikosofo", anzi, possiamo d'ora in poi definirlo a questo modo in virtù del fatto che colui del quale parliamo è atterrito dal sapere e, conseguentemente lo odia.
Lo odia ma non ne farà mai a meno."


Marco Palladini

da "Serial Killer"

Rosas: è l'agonia.
Quella è la mia agonia.
Nessuna pietà per se stessi.
Siamo persi quando accettiamo
l'idea della perdita.
Io vado oltre.


Pindaro: Umbrae Somnium Homo / L'uomo è il sogno di un'ombra


"E la luce della luna venata di sangue vacilla / Il buio cadente del sonno ogni tanto ti sfiora / vola via, poi torna sulla tua fronte." (Miklòs Radnòti)


Iosif Brodskij

Farfalla II

Perché i giorni per noi
sono nulla. Un vuoto
zero, nulla. Non puoi
appuntarteli al muro e agli occhi
renderli commestibili:
sul bianco sfondo
non possedendo corpo
sono invisibili.
Come te sono i giorni,
e quale peso poi
rimpicciolito dieci volte
può avere un giorno?

"Per compiacere un'ombra/ se non vi è luogo come Pietroburgo dove i pensieri si distacchino altrettanto volentieri dalla realtà/ molti dei tratti stilistici peculiari di Brodskij sembrano derivati, per osmosi, dalla città: la disciplina dei colonnati illusionistici, la luce pallida e diffusa, dove occhio e memoria operano con inusuale acuità, l'onnipresenza dell'acqua, questa forma addensata di Tempo, il soffio di un vento saturo di alghe."

***

Trovato sul web

"Veniamo da un abisso oscuro; ritorniamo in un abisso oscuro. Lo spazio luminoso che intercorre tra di loro lo chiamiamo vita. Appena nati inizia il nostro ritorno; contemporaneamente l’inizio e il ritorno; ogni attimo moriamo. Per questo molti hanno protestato: lo Scopo della vita è la morte. " Nikos Kazantzakis.

***

Fra gli Stoici Romani il più noto è Seneca (d'origine spagnola), maestro di Nerone, e da lui costretto poi a uccidersi. è fra gli scrittori più reputati per la bontà letteraria dei suoi scritti; si distingue filosoficamente per una nota sua propria di schietta umanità.


Vedi quel precipizio? Di là si scende alla libertà.
Vedi quel mare, quel fiume, quel pozzo?
C'è la libertà in fondo.
Vedi quell'albero? Di lì pende la libertà.
Ti mostro uscite troppo penose, che esigono gran coraggio e forza? Chiedi quale sia la via migliore alla libertà?
Qualsiasi vena del tuo corpo.

Nella morte non cadiamo all'improvviso, ma procediamo passo passo: ogni giorno moriamo. La nostra ultima ora in cui cessiamo di essere, non fa da sola la morte, ma la compie: arriviamo allora ad essa, ma da tempo ci eravamo posti in cammino.


Da "Il compimento dell'amore" di Robert Musil

Tutta la stanza era appesa a questo sentimento tenue, quasi irreale e tuttavia così distintamente percepibile, come a un asse che oscilla sommesso; e poi alle due persone sulle quali quell'asse poggiava: gli oggetti intorno trattenevano il respiro , la luce alla parete si irrigidiva in pizzi dorati... tutto taceva e aspettava ed era lì per loro... il tempo, che attraversa il mondo come un filo infinitamente luccicante, senza fine, sembrava passare in mezzo a questa stanza, e poi sembrava passare in mezzo a queste persone, e poi sembrava d'un tratto fermarsi e farsi rigido, del tutto rigido e immobile e luccicante... e gli oggetti si avvicinavano un poco l'uno all'altro.
Era un irrigidirsi e poi sprofondare piano piano, come quando improvvisamente delle superfici si organizzano e si forma un cristallo... intorno a queste due persone percorse dal suo centro, che d'un tratto si guardano attraverso questo trattenere il fiato e incurvarsi e appoggiarsi intorno a loro, come attraverso migliaia di superfici riflettenti; e si guardarono di nuovo come se si vedessero per la prima volta...

Sentivano che il segreto del loro essere in due si fondava su questa solitudine. C'era intorno a loro un'oscura sensazione del mondo che li stringeva l'uno all'altro, una sensazione di sogno, di freddo da tutti i lati tranne uno, dove poggiavano l'uno all'altra, si alleggerivano, si coprivano come due metà meravigliosamente combacianti che, congiunte, diminuiscono la loro superficie esterna, mentre il loro interno confluisce e si accresce.


 Da "La Contessa Nera" di Rebecca Johns

Un libro, che sotto forma di romanzo biografico, si addentra nella vita e nella psiche di Erzsébet Bàthory, soffermandosi anche nell'analisi della situazione socio-politica dell'Ungheria del 1600, e della famiglia reale di Erzsébet.

"Madre. Amante. Strega. Assassina. A volte il male è l'unico modo per difendersi."

"Era una dolce mattina brumosa di giugno e le grigie mura in pietra degli spalti merlati erano cosparsi di licheni verdi e tralci di edera in fiore. Una sottile nebbiolina bianca si librava sul castello e sul ponte di legno che collegava la fortezza con l'esterno. Gli ospiti non erano ancora partiti e alcuni, ruzzolati sull'erba del giardino durante la notte, si erano persino sistemati a gruppetti di due o tre a dormire qua e là, avvolti nei mantelli. Mi nascosi dietro le siepi di tasso per non farmi vedere, dirigendomi verso l'ingresso principale del castello interno e oltrepassai il ponte di legno sulla palude. Lì il sole fece capolino e illuminò le canne di una luce dorata, mentre gli aironi si muovevano silenziosi sulle loro gambe sottili in cerca di pesci e rane, e gli insetti si levavano in volo al mio arrivo. Alla fine raggiunsi le mura più esterne e di lì la strada che conduceva oltre la palude in un declivio erboso. Un boschetto di biancospini nascondeva parzialmente la vista della pianura, ma l'odore penetrante del fango e delle canne, l'aroma fertile della terra ancora intatta permeavano ogni cosa."


Da "Un Bellissimo Novembre" di Ercole Patti

Uscì senza far rumore con un senso di disperazione come se fosse accaduto qualcosa di irreparabile, un fatto che aveva insozzato per sempre i sentimenti più sacri e gelosi della vita, una profanazione senza rimedio.


Poi abbiamo imparato a sopportare come gli altri,
e a benedire l’attimo, se privo di dolore. (Czeslaw Milosz)

trovata su: http://nonsequitur.iobloggo.com/


SATANA, COME METAFORA DELL'ESSERCI UMANO

Cinque brani, che metto a confronto, su Satana, visto come metafora dell'Esserci umano, tra tentativo di rivolta ad un destino di malattia e morte, il non senso delle disgrazie che subiamo, il silenzio di Dio di fronte al grido di dolore e di aiuto dell'essere umano, che di fronte a questo Dio Muto, che appare come disinteressato, o persino compiaciuto nel vedere l'uomo-burattino alla deriva, si identifica col Primo Ribelle, quasi augurandosi un destino di dannazione piuttosto che riconoscere amorevole un Dio Assente al nostro grido... e viene in mente la famosa frase Miltoniana,

"Meglio regnare all'Inferno che servire in Paradiso"


***


Fritz Zorn (da "Il Cavaliere, la Morte, il Diavolo")

"In questo senso posso persino identificarmi con Satana perché come ho scritto nella prima parte della mia storia, io la mia malattia, il mio cancro (2 anni fa la mia malattia si chiamava ancora cancro) l'ho voluto: ho voluto essere percepito nelle buie caverne degli Inferi "per essere altrove" piuttosto che nel mondo della depressione in cui avevo vissuto i primi trent'anni della mia vita. In questo senso vedo nell'elemento Satana anche l'elemento liberatorio."


Andrea Emo (da "Supremazia e Maledizione")

"Il Sé è Lucifero (o meglio il Dio) decaduto. Il Sé è l'Io, la Soggettività dell'Io, decaduta a oggetto, a oggetto di conoscenza e perciò precipitato e confinato nel vuoto abisso del Nulla. Eppure questo Lucifero divenuto Genio Infernale si trasfigura e riappare nei nostri cieli, nei nostri paradisi.
Il Sé Lucifero è quella parte dell'Io che ha il supremo coraggo di non essere. La Stella della Sera, la più lucida, Stella del Cielo Vespertino, scende rapidamente nel Nulla e riappare poi dopo un'intera notte come la più Lucente Stella del Mattino. L'Io e il Sé, Dio e Diavolo, sono una sola vicenda."

Giovanni Cenacchi (da "Cammino tra le ombre", 2008)

L'Autore, nato nel 1963, è morto nel 2006, dopo essersi malato di tumore; per tutto il periodo della malattia, ha scritto un diario, che è stato pubblicato nel 2008. Lo consiglio vivamente; quello che colpisce di Cenacchi è che anche lui era autodidatta, e il suo diario resta un prezioso, luminoso e raro esempio di "Filosofia dell'Anima, scritta con inchiostro di sangue", al di là delle paludi sterili dell'accademismo che riducono il pensiero a sterile e boriosa ostentazione di paroloni, per tirarsela e sembrare colti e dotti...quella è la morte del Sapere, ed è una mafia culturale, che tenta di relegare le riflessioni esistenziali ad un elite saccente. Di Cenacchi, riporto queste frasi, atti d'accusa fortissimi contro Dio, pronunciate da un uomo al culmine della sua disperazione e del suo senso di abbandono, di fronte a un dolore del quale non si vede né l'utilità, né il senso:

"Dio crudele e distratto, quando avverrà per te la resa dei conti? Quando dovrai rispondere del tuo creato? Chi ti infliggerà la condanna che meriti? (23 settembre)"

"Che orrore sarà il paradiso dell'artefice di questo mondo? Di fronte al tuo creato, o signore, il dilemma non consiste nel crederti, ma nel fidarsi di te. Io non mi fido di dio.
(25 ottobre 2004)

"Preghiera di un non credente: il mio dolore è il mio rosario.
(24 maggio 2005)"

"Vivo nella mia morte e null'altro mi è permesso / ogni cosa che vedo, è cosa che perdo."


Questo invece è un commento di Luigi Pareyson ad Alfred de Vigny, che si ricollega alle accuse contro Dio di Giovanni Cenacchi:

"Protesta Alfred de Vigny, e non soltanto quando aggiunge "le silence" al Poema "Le Mont des Oliviers", suggerendo di opporre al silenzio di Dio, il freddo e sdegnoso silenzio dell'Uomo, ma anche quando immagina un giovane infelice che commette il suicidio con lo scopo preciso di presentarsi a Dio, per chiedergli ragione d'averlo creato sofferente."

Non è la stessa domanda inespressa, quel "Perché Dio hai permesso Auschwitz? Perché permetti tutto questo dolore a quelli che tu chiami tuoi figli?" che permea anche la riflessione di Elie Wiesel?

Infine, qualche verso di "Ora Satanica" di Gabriele d'Annunzio, che mostrano un Satana Dionisiaco, Gloriosamente Ribelle e Invitto, Spirito e Motore stesso della Volontà di Vita, Sentinella del Sapere, come viene inteso nel pensiero luciferino; del resto per un Luciferiano il dio di morte, tenebra e dolore, dittatura e tirannia, oscuratore della conoscenza, signore dei cadaveri e dei cimiteri, è proprio il Dio dei cristiani!

Voglio l'ebrezze che prostrano l'anima e i sensi,
gl'inni ribelli che fan tremare i preti:

voglio ridde infernali con strepiti e grida insensate,
seni d'etére su cui passar le notti:

voglio orgie lunghe con canti d'amore bizzarri:
tra baci e bicchieri voglio insanire.

Vola, Satana, vola su la grand'ala di foco:
stammi a fianco e ispirami: son tutto tuo!

...

Ma io con la spada ne'l pugno e di fronte a' nemici
con lo schermo su' labbri morrò da forte.

...

E l'estrema parola sarà una sfida superba,
una minaccia atroce sarà il mio moto estremo.



Trama: un uomo vive con un fratello malato in un vecchio appartamento nel cuore della città. Per intrattenerlo, ma anche per comunicare con lui, inventa un complesso rituale di giochi negli spazi della casa semideserta...
"Fratelli" è la storia di un'esperienza estrema, l'incontro di due linguaggi: quello articolato e metodico della "normalità" e quello sfuggente e perentorio, virtualmente illimitato della malattia. Tema centrale del racconto è la ricerca dell'Altro, che da anni impegna a fondo la cultura europea.

Gli stralci più belli:

Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato. Nessun altro abita con noi, e le visite si fanno rare. Ultimi rimasti di una famiglia che fu numerosa al tempo della mia giovinezza, ci muoviamo, ora, in una complicata gerarchia di silenzi.

Non le darò un nome. La malattia rappresenta, nel nostro peregrinare, l'incognita permanente: una specie di oggetto invisibile prima ancora che una forza ostile (...) Non siamo mai certi di poter dire: questa cosa deriva dalla malattia, quest'altra invece ne è immune; giacché la malattia, impalpabile e lenta, percorre di soppiatto ogni luogo senza lasciar prevedere dove, esattamente, né in quale momento, sorprenderà i nostri passi imbrogliandoli o modificandone il corso.

Ma bisogna calcolare gli effetti di una convivenza coatta. Come in tutte le lunghe contese, non c'è da meravigliarsi se il mio modo di lottare si è fatto, col tempo, complicato e contradditorio, e se qualche volta rassomiglia a una trattativa molto più che a una guerra. In realtà il mio comportamento non ha nulla che non rientri in una strategia attenta e meticolosa. Ho imparato che bisogna fingere di accettare la malattia come qualcosa che ci integra e ci appartiene, alla stregua di un prolungamento insano dei nostri corpi: una cerimonia consacrata, dunque, capillare e incessante, un codice casalingo radicato nei nostri gesti. E i risultati sono anche apprezzabili. Oso dire che questa familiarità del mio antagonista, mi mette, paradossalmente, in una situazione di vantaggio rispetto ad esso.

è importante che possa pensarlo; è importante che possa fantasticare di vivere altrove, preparandomi alla partenza, anche, nei più minimi dettagli,