Vladimir Jankèlèvitch


Da "La Morte", pagina 186

"Già mentre viviamo, moriamo". Bérulle, dopo Montaigne, ritorna spesso su questo paradosso della mors vitalis che corona una vita mortalis. "Noi dobbiamo vivere morendo e morire vivendo, vale a dire esercitare un modo di vivere che sia veramente morte e sopportare un modo di morire che sia veramente vita". E altrove, predicando "l'abnegazione di se stessi": "Siamo nati per morire [...] Chi fuggirà questa morte fuggirà la vita, poiché questa morte è la vita stessa, e questa specie di morte è morte e vita insieme. Tanto che, abbracciando la morte, noi abbracciamo la vita". In occasione del giorno delle Ceneri, scrive: "Noi pensiamo di essere vivi e siamo veramente morti fin da ora [...] Nasciamo morti a Dio [...] e viviamo solo a condizione di morire noi stessi".

"Morir viviendo" diceva Quevedo. E Graciàn, nel suo El Criticòn:
"il viver non è altro che un andar morendo ogni giorno".
E Montaigne: "Siete nella morte mentre siete in vita [...] durante la vita siete morente".

Montaigne, su questo punto, sarebbe stato d'accordo con i sermoni di Padre Bourdaloue! Poichè è tutta la nostra vita che invecchia a essere una vita morente; ed è tutto il nostro corso vitale a essere una morte perpetua e una estinzione continuata. Bérulle, in effetti, non ha occhi per l'intensa fecondità del divenire, e in questo si situa lungo la linea di Platone: la vita "non è che perpetuo fluire verso la morte", il tempo vissuto non è altro che disgregazione e catagenesi. Ecco cosa accade quando scompare la fiducia nella continuazione dell'essere: il passato non è più, e il presente sta per svanire; il futuro, per il momento, non è ancora, e presto avrà cessato di essere senza mai essere stato veramente. Sarà già antiquato prima di essere stato attuale.
(Nota di Lunaria: in "L'inconveniente di essere nati" Cioran affermava "Questo istante, ancora mio, eccolo scorrere, sfuggirmi, eccolo inabissato. Mi comprometterò con il successivo? Mi decido: è qui, mi appartiene, e già è lontano. Da mane a sera a fabbricare passato!")

Non-essere del Non-più, non-essere del Non-ancora, quasi niente dell'Adesso: questi tre non-essere fanno della nostra esistenza un'esistenza fantasma. Il tempo della vita è un sogno, un inizio continuamente aggiornato, una promessa mai mantenuta o, per dirla con Eraclito, è un fluire il cui scorrere non può essere arrestato e che ci scivola tra le dita. Di questo genere è l'inconsistenza meontica del tempo vissuto. La mortificazione non è dunque solo un esercizio ascetico: rappresenta l'opera inesorabilmente progressiva dell'invecchiare quotidiano, o piuttosto l'ascesi è una mortificazione sistematica, come nel Fedone. Il vivente comincia a morire il giorno stesso della sua nascita, e continuava in seguito la sua mortificazione quotidiana giorno dopo giorno e minuto dopo minuto, sino al colpo di grazia della morte propriamente detta. Metafore più o meno manichee sono servite talvolta a esprimere questa funzione mortificante dell'invecchiamento. Se il nulla è raccolto all'interno dell'essere come la sua antitesi ipostatizzata o sostanzializzata, se una negazione immanente è davvero nascosta sotto la positività degli organi e dei tessuti, se una malattia mortale abita sin dall'origine l'essere vivente predestinato al non-essere, ci si spiega allora il fatto che la successione degli anni, estenuando e rarefacendo a poco a poco lo spessore della positività ontica, lascia infine trasparire la morte contenuta nella vita: come la trama diventa sempre più evidente attraverso un vestito logorato e assottigliato dall'usura giornaliera, così lo scheletro diviene sempre più visibile sotto le carni del vecchio smagrito (ammesso che lo scheletro sia la morte). Infatti, lo scorrere del tempo esercita sugli esseri e sulle cose un'azione degradante. Il tempo sarebbe la dimensione della dissoluzione. Ma non stiamo usando rappresentazioni banalmente metaforiche? Si insinua che la morte potrebbe essere incastrata nella vita, nello stesso modo in cui l'anima sarebbe racchiusa nell'involucro del corpo. "Impegit in vitam mors" diceva San Bernardo, "et inclusit intra se vita mortem, et absorpta est mors a vita". Ma questo, nel caso specifico, significa dimenticare la doppia assurdità dell'inesse: non soltanto l'essere-in esprime rapporti spaziali e topografici, localizzazioni che qui non potrebbero darsi, ma inoltre questa inclusione è doppiamente priva di senso quando il contenuto del contenente si chiama la morte, ed è una pura negazione preliminarmente ipostatizzata. Se l'essenza dell'anima non diventa sempre più visibile col venir meno dello sviluppo corporeo, a maggior ragione l'invecchiamento non rende la morte sempre più manifesta in un organismo sempre più malandato; il niente della morte non potrebbe mai apparire attraverso questa carne emaciata che la vita abbandona.
   

Pagina 187-188-189

L'usura progressiva: il condannato a morte.

Fare del divenire una vita morente significa tener conto unilateralmente solo della metà della verità, significa fare dell'invecchiare un processo semplice e adialettico in cui la mortificazione svela progressivamente la morte. Significa dunque prendere alla leggera la profonda ambiguità dell'"organo-ostacolo". Costantemente morente, la vita è al contempo costantemente nascente; l'abbiamo chiamata una progressione remissiva. Simile alla scintilla dell'istante, che ne costituisce la riduzione infinitesimale, la vita è sparizione che appare, o viceversa:l'apparizione è incessantemente complicata dallo sparire dell'apparire, poichè l'apparire appare solamente nel proprio sparire. L'equivoco di una vita nascente-morente, dunque, come potrebbe non giustificare al contempo il pessimismo e l'ottimismo? Ma alla natura unilaterale, noi proviamo a sostituire una lettura duplice.
Il primo aspetto da affrontare è un'evidenza banale, e insieme una verità tristemente obiettiva: l'invecchiare ci avvicina alla morte, e questo fisicamente e alla lettera. Siamo ben lontani dalla possibilità di fare dell'invecchiamento solo una credenza, della morte una mera rinuncia, del morente uno che semplicemente dà le dimissioni. La morte di per sé certo non sopraggiungerebbe senza una specie di consenso, senza una capitolazione della volontà di vivere, tanto che Jacques Madaule ha sottolineato l'infinita stanchezza che induce il vecchio all'abbandono finale. Ma il semplice abbandono non farebbe morire nessuno. L'uomo che invecchia non è, se non per modo di dire, la vittima di una suggestione diabolica! No, la sclerosi dei tessuti e dei vasi, la crescente fragilità delle ossa, la fatica del cuore, la presbiopia, non sono una "suggestione"...sono piuttosto i segni precursori dell'invasione dell'inerzia; le funzioni vitali rallentano, le cellule invecchiano, invecchiano le arterie; i veleni e le tossine corrompono a lungo termine, a poco a poco, e ogni giorno un po' di più, la composizione chimica degli umori. Infine il corpo stesso s'incurva, come se una sorta di geotropismo letale lo attirasse già verso la tomba, come se la sua stessa pesantezza lo inclinasse già verso il basso e le profondità telluriche. Il tempo che passa rende sempre più probabile la rottura di un vaso, sempre più minaccioso un arresto cardiaco, sempre più a rischio la sopravvivenza dell'organismo malandato, sempre più in pericolo la continuazione del nostro essere. è un fatto che invecchiare aumenta le possibilità di morte e indebolisce la speranza di sopravvivenza; a mano a mano che gli anni si susseguono, la continuazione dell'esistenza tende a diventare miracolosa. Questa esistenza, con l'avanzare del degrado, è ormai appesa a un filo. è la verità costantemente confermata dalla probabilità statistiche e dalla legge dei grandi numeri. Le previsioni pessimistiche su questo punto sono pertanto giustificate. L'irreversibilità e la continuità del divenire finito conferiscono infatti tutto il suo senso all'usura implacabilmente progressiva che chiamiamo invecchiamento. Oggi, io sono un po' più morto di ieri, e un po' meno di domani! Oppure, ed è la stessa cosa, in qualunque istante della vita ci troviamo, qualunque sia il posto che occupiamo sulla pista misurata e circoscritta del corso vitale (l'avanzamento all'interno del quale dipende per ciascuno e in ogni istante dalla data di nascita), non saremo mai stati più vecchi.
Quali che siano il giorno e l'ora del nostro Adesso, questo Adesso non sarà mai stato più vicino alla morte; quali che siano la data sul calendario, l'ora e il minuto sull'orologio, la fine non sarà mai stata più prossima. La nostra età è dunque in ogni momento la più avanzata possibile. E così ogni giorno accorcia e riduce un po' di più l'intervallo che, in questo stesso istante, ci separa dalla morte. Ogni giorno la pelle di zigrino si contrae inesorabilmente, irreversibilmente. L'appropinquare di San Bernardo è a questo riguardo interamente giustificato. Il principio di identità ha reso ancora più inflessibile l'irreversibilità del divenire che sigilla per sempre il nostro irrimediabile destino. Il già-vissuto non è più da vivere, ed è in un certo senso prelevato sul totale degli anni assegnati a ogni essere. Tutto ciò che è vissuto, ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, è in meno, vale a dire è da sottrarre al nostro tempo vitale. Quel che è vissuto è tanto di vissuto! Tanto di meno da vivere! Ogni pasto che si consuma è un pasto in meno da consumare. "Tutto ciù che vivete" dice Montaigne "lo sottraete alla vita. Lo vivete a sue spese". Il vissuto è da mettere in conto sul nostro credito di sopravvivenza. Si vive a spese della vita; o, in altre parole, i viventi vivono sul loro vivendum! Infatti ogni ora trascorsa, avvicinandoci alla fine, accorcia di tanto il periodo  che ci resta da vivere: dal momento che il tempo già vissuto non si rinnova, dal momento che l'attualizzazione dei possibili resta non compensata, il margine di vita ancora da vivere, eroso da questa vita già vissuta, si riduce implacabilmente. Il Creatore continua a possedere ciò che dona, in quanto la sua generosità inesauribile è proporzionale alle sue infinite risorse, mentre la creatura non ha più ciò che dona, poichè il dono in questo caso s'iscrive al passivo di un avere infinito. Allo stesso modo, se l'uomo vivesse eternamente, sprecherebbe il suo tempo senza tenerne conto. Ma gli anni sono preziosi, e il tempo perduto lo è senza ritorno... Il futuro da vivere e il passato vissuto, come il faciendum (infectum) e il factum nei compiti portati a termine, formano per così dire un totale costante e un quantum determinato, ma in modo tale che questo continua a crescere a scapito di quello, così come l'avvenire s'impoverisce continuamente a vantaggio del passato.

****

Com'è possibile essere testimone della propria nihilizzazione, morire sopravvivendo?

L'intuizione è una presa di coscienza che è assenza di coscienza, veglia incosciente, chiarore che dissolve le tenebre; la coscienza, nell'istante stesso in cui svanisce, si risveglia. Nell'istante in cui muore, risuscita. L'istante è vita morente. Una morte che coincide con la vita.

...Pensare la morte morendo a furia di pensarci, lasciando che essa ci strangoli, che la negazione mortale si trasferisca sul soggetto conoscente e muti la sua conoscenza in non conoscenza, che il niente della morte neghi lo stesso essere dell'essere pensante.

L'invecchiamento non sarebbe forse una sorta di morte diluita?

L'opera continua della vostra vita è costruire la morte.

La preoccupazione per il futuro esprime in ultima analisi il presente a venire della morte, poichè la morte è il supremo avvenire e il futuro di tutti i futuri.

L'angoscia del presente si chiama futuro.L'angoscia di oggi si chiama domani. E l'Angoscia delle angosce, quell'Angoscia elevata alla potenza che potremmo chiamare ansietà, l'Angoscia diffusa e infine estrema, si chiama La Morte.

La morte è sempre di volta in volta danzatrice macabra, che recita nenie, amante assassina, comandante...

La morte presuppone la trasposizione anch'essa negativa della negatività divina: è al contempo negazione pura e semplice dell'essenza, e negazione pura e semplice dell'essere - e in questo è doppiamente antidivina - non è né il niente fondatore, né il nulla creatore, ma è il piatto non-senso del senso e il puro e semplice non essere dell'essere.

Abbiamo vissuto solo per diventare polvere informe e per fare ritorno all'indifferenziazione della materialità?

Riprendendo quello che il Creatore ha donato, la morte è letteralmente "Decreazione".

Lo Spirito che nega senza sosta non è Mefistofele, ma la morte.

La morte è il non senso della vita, l'inconsistenza di tutto il nostro essere, la precarietà del divenire e la vanità dell'umano in generale.

Il senso del dolore, il senso dell'oltretomba di chi è privato del suo essere dalla morte, è nostalgico come un fascino:
perché il senso del disincarnato è una specie di fascino e il fascino a sua volta è come il senso impalpabile e criptico di un volto, o uno sguardo di un sorriso.

L'anfibolia (equivocità) del divenire ci offre motivi di consolazione e di desolazione non successivi ma simultanei.