Sartre, commento aggiornato 2024
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Scrivere. Perché scrivere, per la gloria, per la ricchezza, per una "missione" che ci si sente dentro? No, scrivere, semplicemente:
"...scrivo sempre. Che c'è da fare di diverso?... è la mia abitudine, e poi è il mio mestiere. Per molto tempo ho preso la penna per una spada: ora conosco la nostra impotenza. Non importa: faccio, farò dei libri; ce n'è bisogno; e serve, malgrado tutto. La cultura non salva niente né nessuno, non giustifica. Ma è un prodotto dell'uomo: egli vi si proietta, vi si riconosce; questo specchio critico è il solo ad offrirgli la sua immagine."
Scrivere per specchiarsi, dunque.
Per ricercare nell'opera, nelle parole scritte, il proprio volto di uomo, il senso della propria vita, il significato delle cose.
Per null'altro vale la pena di accingersi al duro mestiere dello scrittore.
Non molte tempo dopo aver esposto nel suo lavoro più recente ("Le Parole") questa specie di compendio della sua posizione di fronte alla letteratura , Jean-Paul Sartre compì il gesto per il quale tornò, come nei primi anni del dopoguerra, ad essere l'autore più "chiacchierato", il filosofo scrittore più discusso: rifiutò il Premio Nobel 1964 per la letteratura.
Non in segno di spregio per questo alto onore, ma per rigida coerenza con le proprie idee.
Il "gran rifiuto" di Sartre fece parlare e sparlare tutto il mondo. Ma una constatazione è unanime.
Di Sartre si può dire tutto, si può criticarlo, non amarlo, ma non si può rimproverargli di non essere sempre stato se stesso, di non aver pagato di persona, con un suo tormento interiore, il prezzo di quello che andava dicendo e scrivendo.
Ma chi è Sartre? Il grande pubblico lo conosce come il padre dell'Esistenzialismo, il vate di quei personaggi che dopo la fine della guerra, specialmente a Parigi, manifestarono la loro volontà di rifiutare la società dell'uomo attuale e si abbandonarono a manifestazioni vagamente esibizionistiche: abiti trasandati, ritrovi notturni negli scantinati bar (le famose "caves") del quartiere parigino di St. Germain-des-Prés, angoscia vera o falsa di fronte a ogni scelta che impegnasse la loro libertà e la loro responsabilità.
Ma Sartre stesso rifiuta la paternità filosofica del movimento esistenzialista.
Ma allora, chi è Sartre veramente? La sua vita non è sufficiente per farcelo capire.
Nato a Parigi nel 1905 da una famiglia alsaziana, rimase orfano di padre e venne allevato dal nonno materno, zio del famoso dottor Albert Schweitzer che andò a spendere la propria vita fra i malati africani di Lambaréné.
Fin da bambino, Sartre lesse di tutto, dai libri per ragazzi ai drammi di Corneille e i romanzi di Verne.
Prese la laurea in filosofia, prestò servizio militare, cominciò a pubblicare le sue prime opere.
Una vita regolare, in apparenza. Ma in realtà la storia di Sartre è tutta interiore: è la storia di un uomo e di tutta la società europea vissuta tra le due guerre.
Non si può capire Sartre senza approfondire parallelamente alle sue opere letterarie e teatrali, il suo pensiero filosofico.
I temi delle sue opere sono la solitudine, la libertà, la responsabilità dell'uomo di fronte a null'altro che alla sua coscienza personale.
Il compito che Sartre si accolla è quello di "chiudere l'uomo dentro l'uomo" cioè di sottometterlo a una responsabilità personale, autonoma.
Una responsabilità che è libera da legami con doveri superiori, con una fede, con ideali astratti ma che nasce, vive, si esaurisce tutta entro i confini della coscienza individuale.
La preponderanza di tali temi della solitudine, della libertà, della responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso non è certo un'invenzione di Sartre; la generazione tra le due guerre mondiali sperimentò drammaticamente la più dura esperienza: quella di sentirsi "sradicati", privati del conforto di quella fede religiosa o filosofica che aveva consolato gli uomini della generazione precedente; l'esperienza di sentirsi in completa solitudine dentro un mondo che appare ora ostile, ore inutile, ora inerte
(Nota di Lunaria: oggigiorno appare direttamente putrefatto)
Altri grandi autori vissero questo dramma: Gide, Unamuno, Bernanos, Chesterton, Camus e altri (aggiungo anche Cioran. Nota di Lunaria)
Ma la soluzione che Sartre ne diede è unica, radicale, e, per molti, convincente, tanto che essa determinò il modo di vivere di gran parte della generazione successiva.
L'Angoscia, la Nausea e la Responsabilità
Mentre andava approfondendo il suo pensiero filosofico, Sartre sentiva affiorare nell'animo le domande fondamentali: perché si vive, perché siamo soli, perché sono qui ora, con il mio fascio di problemi, di esigenze, di aspirazioni, di cognizioni?
Tutto il pensiero di Sartre affonda le proprie radici in questa implacabile e lucidissima indagine della propria esistenza.
E questa ossessiva indagine diviene materia per la prima grande opera letteraria di Sartre: "La Nausea" (1938)
Il protagonista non è altri che lo stesso scrittore che descrive il maturare delle proprie convinzioni.
L'esperienza del protagonista parte da quella solitudine di cui abbiamo parlato; una solitudine che non significa quiete, bensì dramma, lotta interiore, analisi continua e spietata del proprio io.
Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto.
Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita.
Esiste una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità.
Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì tragico, altri assurdo, altri angoscioso e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea
(Nota di Lunaria: che è molto più che un romanzo di Sartre, ma un'esperienza pre-mortem...)
Per essere più precisi, per Sartre, la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito.
Così il protagonista della Nausea rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore, e tutto si mette a ondeggiare... ecco la nausea"
Infatti, di fronte a questa disperata solitudine dello spirito, di fronte al mondo e a qualsiasi fede sta il grande problema della responsabilità personale, dell'impegno che istintivamente ciascuno sente di dover porre in ogni suo atto. Da una parte c'è la solitudine, cioè la mancanza di valori assoluti in cui credere e per cui vivere; dall'altra c'è l'assoluta necessità, se si vuol essere uomini coscienti, di vivere in maniera responsabile dando un senso alla propria vita. Esiste insomma una continua, drammatica tensione fra la propria solitudine e la propria responsabilità.
Il frutto di questa tensione è quel particolare sentimento che Unamuno definì "tragico", altri "assurdo", altri "angoscioso" e che per Sartre, incarnato nel suo personaggio, diventò la Nausea.
Per essere più precisi, per Sartre la Nausea è quel sentimento che piomba addosso all'uomo nel momento in cui scopre che le cose, la vita, gli oggetti materiali, egli stesso, non hanno un senso; non esistono, ma ci sono in modo gratuito.
Così il protagonista de "La Nausea" rivela la conclusione cui Sartre era giunto: "Esistere è esserci, semplicemente... Tutto è gratuito, questo giardino, questa città ed io stesso. Quando vi accade di rendervene conto provate un tuffo al cuore e tutto si mette a ondeggiare... ecco la Nausea"
Siamo al punto centrale non solo del romanzo, ma potremmo dire della storia spirituale dell'uomo-Sartre.
L'essere niente, dice Sartre, non riduce la Nausea, anzi la rende più drammatica, perché l'uomo non è inerte come un sasso, come una pianta. L'uomo ha una coscienza, la quale avverte sì la Nausea, ma manifesta anche l'esistenza di una libertà e di una responsabilità di ciascuno di fronte a se stesso:
"Io non sono niente, non ho niente. Inseparabile dal mondo come la luce e tuttavia esiliato, come la luce, scivolo sulla superficie delle pietre e dell'acqua, senza che niente, mai, mi agganci o mi insabbi. Fuori. Fuori. Fuori del mondo, fuori del passato, fuori di me stesso: la libertà è l'esilio ed io sono condannato ad essere libero."
La coscienza umana è libera; solo la coscienza può dare una giustificazione a questo nauseante "esserci" senza senso:
"Una volta che ci si è trovati... non si tratta più di perdersi: non più abisso, non più notte; l'uomo si porta ovunque con sé; dovunque sia, egli illumina, non vede che ciò che illumina, è lui a decidere del significato delle cose."
Il discorso di Sartre, iniziato nel 1938, viene continuato dai racconti e dai romanzi successivi ("Il Muro" 1939, "Il Cammino della Libertà" 1945) e dalle opere teatrali ("Le Mosche" 1943, "A porte chiuse" 1944, "Morti senza sepoltura" 1946, "Le Mani sporche" 1948) e non si conclude con un pessimistico rifiuto di esistere ma con un serio impegno di vivere e di costruire.
In che senso?
Evitando di ingannarsi più o meno volontariamente.
Per essere uomini occorre spogliare l'uomo dai conformismi, e porlo senza pietà di fronte alla sua vera natura e ai problemi della sua coscienza.
Per esempio, ecco in qual modo ci si può illudere, e in che senso valga la responsabilità sincera, l'impegno dell'uomo che è passato attraverso la Nausea e vuole dare un significato alla sua esistenza.
Il protagonista di questo brano è al ristorante, negli anni della guerra civile spagnola e osserva un compagno a tavola:
"le bistecche sono sulla tavola: una per lui, una per me. Lui ha il diritto di assaporare la sua, ha il diritto di dilaniarla con i suoi bei denti bianchi, ha il diritto di guardare la graziosa figliola alla sua sinistra... io no.
Se mangio, cento spagnoli morti mi saltano alla gola.
Io non ho pagato."
Il primo, quello che mangia, è uno di quelli che Sartre chiama "i salauds", gli "sporcaccioni", i "porci": una di quelle persone che si convincono di credere in valori assoluti, si ritengono in diritto di vivere come meglio piace a loro e non vogliono convincersi che questa è tutta una mascheratura, un autoinganno per evitare l'angoscia dell'esistenza.
L'altro è come Sartre stesso, cioè uno che ha scoperto il non-senso delle cose, che ha sofferto la tensione della propria responsabilità, quindi un uomo cosciente, costretto dalla sua libertà e dalla sua responsabilità a non ignorare le sofferenze altrui.
Ed ecco il punto di arrivo della storia spirituale di Sartre.
Occorre pagare, pagare di persona per vivere.
Occorre sentire dentro di sé i dolori dei "cento spagnoli morti", cioè gli affanni, le lotte degli altri.
Questo vuol dire agire con un atto responsabile e sincero. Questa, per Sartre, è la moralità, l'unica salvezza possibile. Siamo alla conclusione della sua storia spirituale: Sartre ha pagato di persona perché ha sempre vissuto ciò che ha affermato.
Non si fa fatica, quindi, a comprendere le ragioni del suo impegno in politica, in letteratura, in ogni campo.
è un amore, il suo, per l'uomo, per tutti gli uomini.
Ed è indubbiamente sincero, anche se chi crede in una fede religiosa o in un ideale filosofico o morale non può condividerlo.
Ma la passione di Sartre per l'uomo e la sua storia disperata non manca di una tragica grandezza, forse la grandezza dell'illusione.
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Questo fu il mio secondo scrittarello di Filosofia, dopo quello di Cioran; riletto ora, con quello che so ora, mi sembra un piccolo pulcino appena nato; all'epoca ero ancora così gracilina, mi mancavano ancora tante basi, ma ero piena di passione... :D
Così lo ripubblico, lasciandolo tale e quale ad allora, anche se molto avrei da aggiungere, e molto avrei da collegare, nei rimandi e nelle citazioni... ma lo lascio così, nel suo essere un piccolo schemino scritto da un'autodidatta.
Non è un saggio, non ha pretesa di esserlo, è uno scrittarello introduttivo. Non credo che a Sartre dia fastidio! :D
Così lo ripubblico, lasciandolo tale e quale ad allora, anche se molto avrei da aggiungere, e molto avrei da collegare, nei rimandi e nelle citazioni... ma lo lascio così, nel suo essere un piccolo schemino scritto da un'autodidatta.
Non è un saggio, non ha pretesa di esserlo, è uno scrittarello introduttivo. Non credo che a Sartre dia fastidio! :D
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Pubblico un mio "studio critico" su Jean Paul Sartre, mio grande idolo filosofico che spero di omaggiare con questo articolo.
Come per Cioran, la mia intenzione non è quella di stilare un "noioso" elenco sterile di parole e fatti, preferisco far parlare il mio cuore e i miei sentimenti!
Spero quindi che possiate percepire delle emozioni che vi spingano a riflettere sui perché della vita, magari approfondendo proprio questo capisaldo!
Per un commento esaustivo a Sartre, vedere "Storia della filosofia"
di Franco Restaino volume quarto, tomo secondo.
Ottimo commento su Sartre e analisi eccellente delle principali dottrine filosofiche del '900
Nato il 21 giugno 1905 si può affermare che influenzò quasi tutto il '900. Nel '33 si reca a Berlino dove apprende i fondamenti della Fenomenologia: le sue prime opere riflettono la genialità degli insegnamenti di Husserl.
Catturato dai nazisti nel 1940, riesce a fuggire; questo evento incide profondamente sul suo pensiero, tanto che sebbene ateo, non ha mai smesso di predicare l'impegno alla vita, il suo impegno politico (da notare come la sua compagna Simone de Beauvoir fece altrettanto in campo femminista) l'impegno nel costruirsi il proprio senso, con le proprie forze.
A torto, lo si accusa di tetraggine e depressione, eppure nel manifesto ideologico "L'Esistenzialismo è un Umanismo"(1946) scrive:
"L'uomo sarà innanzitutto tutto quello che avrà progettato di essere... L'uomo è responsabile di quello che è."
Frasi da depresso?
Al contrario, frasi che denotano una grande ammirazione per la capacità costruttiva dell'intelletto umano.
Sartre fa quindi paura solo a chi non si assume mai le proprie responsabilità, né vuole costruirsi da sé il proprio futuro.
Con l'io penso di Cartesio, l'uomo raggiunge la coscienza di sé, anche e soprattutto della propria solitudine.
Siamo quindi liberi, sì, ma condannati a questa libertà, condannati a fare scelte più o meno angoscianti, per tutta la durata della vita.
L'eco di Heidegger è forte in Sartre:
"Una volta gettato nel mondo l'uomo è responsabile di tutto quanto fa."
e ancora:
"Non posso contare su niente... Non c'è realtà che nell'azione".
Sono le due chiavi per accedere al pensiero di Sartre, un pensiero
che non è apatico, non è atarassico e statico, ma dinamico e creativo.
A mio parere si può vedere un eco di Hegel:
Sensazione-percezione-intelletto, e dramma dell'Autocoscienza
che culmina nella "Nausea per la vita".
Con l'Esistenzialismo sartriano abbiamo la progressiva costruzione
della coscienza individuale, del nostro io, di fronte all'angoscia
delle scelte e della solitudine, (che Dio esista o no, non importa: ma se esiste ci ha abbandonato) dell'"essere gettati"
(il Dasein heideggeriano).
Questa presa di coscienza, a torto ritenuta pessimista, è l'unica possibile.
Come si può credere al "questo è il migliore dei mondi possibili" di Leibniz, al bene nel mondo, se tutti noi sperimentiamo il dolore?
Certo, è consolante rifugiarsi in sofismi infantili, se serve a stare meglio, al "la vita è meravigliosa e va tutelata", "il dono più grande è l'amore", "Dio ci ama"... ma se apriamo gli occhi, e Sartre ci invita a farlo, e subito, vediamo che nell'esistenza prevale il dolore o in termini più impersonali, il Nulla.
Sospendiamo il giudizio escatologico o se, dopo la morte, ci aspetti o no una ricompensa.
Nel qui e nell'ora esistenziale non ha senso aspettarsi ricompense ultraterrene, ne far affidamento al "domani farò": è reale solo ciò che c'è ora.
Possiamo quasi paragonare Sartre a un angelo caduto che ci dona la luce, il lume, della ragione e della consapevolezza, esorcizzate dalle melense e stucchevoli credenze ottimiste.
La vita acquista il senso che noi gli diamo, ma anche se non gli diamo un senso, scegliamo di non scegliere: non è possibile non scegliere.
Sartre ci invita, ci esorta a vivere al momento, a farci carico di noi stessi del nostro "divenire", a non avere rimpianti.
"L'Esistenzialismo è un ottimismo, è una dottrina d'azione."
E la sua Nausea esistenziale è salutare, perché ci aiuta a prendere coscienza del dolore, distruggendo le illusioni e i sentimentalismi.
Accettando il dolore come inevitabile (ecco un eco di Schopenhauer!) forse riusciremo anche a combatterlo, A GUARDARLO IN FACCIA, anche se è impossibile sconfiggerlo, perché il dolore nullifica l'essere dell'uomo, nega il divenire e ci pone nella condizione di far sì che quanto abbiamo sofferto non possa mai più essere cancellato.
è falso e menzognero sostenere il contrario!
"L'uomo si presenta come un essere che fa apparire il Nulla nel mondo."
"L'uomo è l'essere per cui il Nulla viene al mondo."
"è nell'angoscia che l'uomo prende coscienza della sua libertà . L'angoscia è il modo d'essere della libertà come coscienza d'essere."
"L'angoscia sono io."
Come riuscire ad essere liberi dal proprio passato?
Riporto anche la mia recensione sulla "Nausea"
Capisaldo dell'Esistenzialismo francese, ottimo filosofo, pieno di
fiducia (per quanto ne dicano i detrattori..) sulle capacità creativa dell'essere umano di costruirsi il proprio senso dell'esistenza, si dimostra anche brillante romanziere. "La Nausea" - il titolo dice tutto - è il disagio del protagonista (forse lo stesso Sartre?) Antoine Roquentin, che attraverso i suoi monologhi trascritti su fogli di diario, ci conduce in una bieca palude dove nausea, noia, vuoto ci travolgono.
Potrebbe quasi essere uno Zeno Cosini più giovanile, quindi più vicino a noi. Perché questo romanzo - del 1938 -
racconta non solo il disagio di un ragazzo del '38 ma anche il tedio che colpisce tuttora noi "ragazzi del 2000".
"Mi è accaduto qualcosa,
non posso più dubitarne... è sorta in me come una malattia... si è
insinuata a poco a poco... ecco che ora si espande..."
"Le note... corrono, s'inseguono, mi piacerebbe trattenerne una, tra le dita... devo accettare la loro morte; devo perfino volerla."
"La Nausea è rimasta laggiù, nella luce gialla. Sono felice, questo freddo è così puro, così pura è questa notte; che non sia io stesso un'onda di aria gelata? Non avere né sangue, né linfa né carne... scorrere in questo lungo canale verso quel pallore, laggiù... Non essere altro che un po' di freddo."
"Vado a caso, vuoto e calmo sotto un cielo inutilizzato."
Ma Sartre non ci ha lasciati in balia del Nulla, che pure
corrode la vita umana... ecco che con la sua filosofia reale, ci ha trasmesso la capacità di credere che se la vita non ha senso a priori e siamo condannati ad essere liberi, spetta a noi soli crearci un senso. Coscienti di questo, coscienti che il dolore ci accompagnerà sempre, il Freddo non prevarrà. L'uomo è libero, è libertà, ma è condannato a questa libertà, a questa enorme solitudine, a questo libero arbitrio...
Rispetto a veri e propri profeti del Nulla (auto)distruttivo - un Caraco, un Cioran - Sartre ha demolito tutto ma per poter ricostruire qualcosa.
Riporto il mio concetto preferito di Sartre!
LO SGUARDO DELL' ALTRO
L'altro è, in Sartre, vissuto come antagonista ("l'inferno sono gli altri" scrive Sartre), in quanto relativizzando il mio punto
di vista limita la mia libertà: il suo "sguardo" mi oggettiva, mi reifica, murandomi nelle sue stesse idee, nei suoi pensieri, nei quali io vengo solidificato, detenuto, dalle quali non posso evadere, sulle quali non ho potere.
Tuttavia lo sguardo dell'altro, oltre che perturbante, è la garanzia della mia esistenza, la testimonianza che non sono una nullità.
Scrive Sartre ne "Il rinvio": "Che angoscia scoprire quello sguardo come un centro universale dal quale non posso evadere; ma che riposo, anche! So infatti di essere. Trasformo quel penso dunque sono e dico mi si vede dunque sono, colui che mi vede mi fa essere: sono come egli mi vede."
***
Sartre e Camus nel commento di Desalmand
Jean Paul Sartre è la figura di spicco dell'Esistenzialismo Ateo. Posta fin dall'inizio l'assenza di Dio, si tratta di rispondere alla domanda "che fare?"; su che cosa basarsi per stabilire una linea di condotta meditata? Visto che i valori non scendono più giù dal cielo, dove trovarli? La risposta è semplice: in se stessi.
Per Sartre, l'uomo è l'essere attraverso il quale i valori vengono al mondo. Ognuno deve assumere la sua libertà. Per Sartre il Bene è accettarsi come un essere libero, responsabile di ciò che la storia ha fatto di lui. Il Male è fuggire da questa responsabilità, preferendo un destino subito a un destino scelto.
Quest'idea di un uomo che rifiuta la tutela degli Dei, e perciò diventa responsabile, appare in molti personaggi sartriani e specialmente in Oreste, personaggio centrale delle "Mosche" (che qui si rivolge a Giove):
"Straniero a me stesso, lo so. Fuori natura, contro natura, senza scuse, senza ricorrere a niente altro che a me. Ma io non ritornerò sotto la tua legge: sono condannato a non avere altra legge al di fuori della mia. (*) Io non ritornerò alla tua natura: vi sono tracciati mille percorsi che conducono verso di te, ma io posso seguire solo il mio percorso. Perchè io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino."
(*) Nota di Lunaria: si ricordi il parallelo con Schiller nei "Masnadieri" (1781):
"Comunque tu sia, Indicibile Eternità,
solo questo mio Io resta fedele... comunque tu sia,
porterò con me solo me stesso.
Le cose esteriori sono solo l'apparenza dell'uomo.
IO SONO IL MIO CIELO E IL MIO INFERNO"
Oltre che col Satana Miltoniano:
"Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno;
e nell'abisso più fondo un altro abisso"
"La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso;"
Nota di Lunaria: Probabilmente, un sartreaismo estremo sfocerebbe nella disperazione, se non ad un vivere arido. Tuttavia, è possibile sublimare concetti come "bisogno di infinito, di conforto", l'anelito all'Infinito, al Metafisico, al Sehnsucht, nella solidarietà (Sorellanza...) o nell'Arte. Arte diventa contemplazione del Bello, della scintilla "spirituale" nell'essere umano, che crea infiniti universi, con la sua fantasia. Non abbiamo bisogno di un dio, men che meno maschile, per nobilitare l'esistenza umana. Basta l'Arte a 360 gradi.
Sartre si avvicina alle tesi di Marx sulla religione, concepita come un'illusione alienante, ma il suo ateismo non si limita a questo. è metafisico. L'idea di un Dio artigiano è respinta, perché l'uomo non può essere considerato come un automa, concepito come un ingegnere. All'origine (come nella testa di un ingegnere che concepisce un automa) non c'è una natura umana, una essenza di origine trascendente, di cui l'esistenza degli individui sarebbe solo uno sviluppo. All'opposto l'esistenza precede l'essenza: ciò a cui si riconduce un individuo, la sua essenza, è determinato solo dalla sua esistenza, dalla somma dei suoi atti (supponendo di poterli conoscere tutti), cioè solo il giorno in cui sarà possibile un'addizione, vale a dire, il giorno della sua morte.
"L'uomo, senza alcun appoggio e senza alcun soccorso, è condannato in ogni istante a inventare l'uomo"
Il punto di partenza di Albert Camus è agnostico piuttosto che ateo. In un certo periodo aveva immaginato di attribuire come sottotitolo al "Malentendu": "Dio non risponde".
Il discorso dell'assurdo si ricollega a quel silenzio. (*)
L'assurdo non esiste in sé. Non è neppure possibile dire che il mondo è assurdo. (**) Esiste solo, senza alcun dubbio, il "sentimento dell'assurdo", che nasce da un appello senza risposta:
"Dicevo che il mondo è assurdo (...) L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame. Li sigilla l'uno all'altro come solo l'odio può inchiodare tra loro gli esseri."
Che comportamento adottare a partire dalla tabula rasa del Nichilismo? (Nota di Lunaria: stranamente, il più bel libro sul Nulla, che ho letto, è proprio stato scritto da un cristiano: Sergio Quinzio. Certamente, non un cristiano tutto pic nic e gite con l'oratorio, si intende...)
"Nella più profonda oscurità del Nichilismo, ho cercato soltanto motivi per superarlo. E comunque non per virtù, né per una rara elevazione dell'anima, ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza."
Da questa assenza di Dio e dunque dall'assenza di una prospettiva oltre la morte, deriva un premio maggiore per le gioie che ci vengono offerte su questa terra. L'epigrafe de "Il Mito di Sisifo", ispirata al poeta greco Pindaro, non è posta a caso:
"Anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esplora il campo del possibile."
UN COMMENTO A SARTRE
«Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione.» «Il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.» Queste le desolate riflessioni di Antoine Roquentin, protagonista della Nausea. Nelle sue prime opere, Sartre descrive l'essere umano, messo quotidianamente a confronto con la minaccia del nulla, con l'angoscioso privilegio della libertà, con l'imprescindibile bisogno di progettualità, racchiuso nei limiti che il corpo, il tempo, gli altri, la morte gli impongono. La condizione umana comporta un prezzo di sofferenza che non ha senso, né ragione alcuna. Per viltà, gli uomini, nella loro maggioranza, occultano le proprie miserie, le proprie angosce, si mascherano di fronte a se stessi e agli altri, preferiscono vivere "in malafede"; al contrario per Sartre la dignità umana sta proprio nell'autenticità, che non può prescindere dal riconoscimento del nulla, della negatività, della morte. È questo, anzi, il presupposto della libertà che quindi è scelta consapevole
del proprio destino, accettazione delle proprie responsabilità profonde, e si contrappone a quello che egli definisce lo "spirito di serietà": l'uomo non può semplicemente adeguarsi a valori,
morali o religiosi, che gli vengono dati dall'esterno, e assumere così dei "ruoli" che lo imprigionano, ma deve percorrere un difficile cammino per scoprire la propria autenticità e quindi la propria libertà. Certo, questi temi, queste suggestioni non caratterizzano solo Sartre: sono presenti nella contemporanea
filosofia tedesca, che egli del resto ben conosceva, e costituiscono il terreno comune anche di molti intellettuali e scrittori francesi che vissero con intensità, ma anche con grande incertezza sul futuro, gli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale: da Nizan a Camus, da Merleau-Ponty alla
stessa Simone de Beauvoir. Sartre ebbe la caratteristica di trattarli sistematicamente, filosoficamente e, al tempo stesso, di "incarnarli" in personaggi che divennero ben presto dei simboli,
almeno per la sua generazione. (dal commento introduttivo di Giorgio Monicelli)
Per Sartre, l'uomo è l'essere attraverso il quale i valori vengono al mondo. Ognuno deve assumere la sua libertà. Per Sartre il Bene è accettarsi come un essere libero, responsabile di ciò che la storia ha fatto di lui. Il Male è fuggire da questa responsabilità, preferendo un destino subito a un destino scelto.
Quest'idea di un uomo che rifiuta la tutela degli Dei, e perciò diventa responsabile, appare in molti personaggi sartriani e specialmente in Oreste, personaggio centrale delle "Mosche" (che qui si rivolge a Giove):
"Straniero a me stesso, lo so. Fuori natura, contro natura, senza scuse, senza ricorrere a niente altro che a me. Ma io non ritornerò sotto la tua legge: sono condannato a non avere altra legge al di fuori della mia. (*) Io non ritornerò alla tua natura: vi sono tracciati mille percorsi che conducono verso di te, ma io posso seguire solo il mio percorso. Perchè io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino."
(*) Nota di Lunaria: si ricordi il parallelo con Schiller nei "Masnadieri" (1781):
"Comunque tu sia, Indicibile Eternità,
solo questo mio Io resta fedele... comunque tu sia,
porterò con me solo me stesso.
Le cose esteriori sono solo l'apparenza dell'uomo.
IO SONO IL MIO CIELO E IL MIO INFERNO"
Oltre che col Satana Miltoniano:
"Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno;
e nell'abisso più fondo un altro abisso"
"La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso;"
Nota di Lunaria: Probabilmente, un sartreaismo estremo sfocerebbe nella disperazione, se non ad un vivere arido. Tuttavia, è possibile sublimare concetti come "bisogno di infinito, di conforto", l'anelito all'Infinito, al Metafisico, al Sehnsucht, nella solidarietà (Sorellanza...) o nell'Arte. Arte diventa contemplazione del Bello, della scintilla "spirituale" nell'essere umano, che crea infiniti universi, con la sua fantasia. Non abbiamo bisogno di un dio, men che meno maschile, per nobilitare l'esistenza umana. Basta l'Arte a 360 gradi.
Sartre si avvicina alle tesi di Marx sulla religione, concepita come un'illusione alienante, ma il suo ateismo non si limita a questo. è metafisico. L'idea di un Dio artigiano è respinta, perché l'uomo non può essere considerato come un automa, concepito come un ingegnere. All'origine (come nella testa di un ingegnere che concepisce un automa) non c'è una natura umana, una essenza di origine trascendente, di cui l'esistenza degli individui sarebbe solo uno sviluppo. All'opposto l'esistenza precede l'essenza: ciò a cui si riconduce un individuo, la sua essenza, è determinato solo dalla sua esistenza, dalla somma dei suoi atti (supponendo di poterli conoscere tutti), cioè solo il giorno in cui sarà possibile un'addizione, vale a dire, il giorno della sua morte.
"L'uomo, senza alcun appoggio e senza alcun soccorso, è condannato in ogni istante a inventare l'uomo"
Il punto di partenza di Albert Camus è agnostico piuttosto che ateo. In un certo periodo aveva immaginato di attribuire come sottotitolo al "Malentendu": "Dio non risponde".
Il discorso dell'assurdo si ricollega a quel silenzio. (*)
L'assurdo non esiste in sé. Non è neppure possibile dire che il mondo è assurdo. (**) Esiste solo, senza alcun dubbio, il "sentimento dell'assurdo", che nasce da un appello senza risposta:
"Dicevo che il mondo è assurdo (...) L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame. Li sigilla l'uno all'altro come solo l'odio può inchiodare tra loro gli esseri."
(*) Una Mary Daly potrebbe far notare che più che il silenzio di Dio, ad essere problematica e di limite, è la sua virilità.
(**) Sulla giustificazione della "Madre Natura Matrigna" che provoca "male" a suo capriccio, si veda de Sade e la sua concezione di "economia dell'universo" esposta nel "Justine"; il male è necessario al bene, il vizio alla virtù. Catastrofi naturali - e persino le lotte tra individui - servono a questo grande "motore naturale" per muoversi e continuare a farlo.
Che comportamento adottare a partire dalla tabula rasa del Nichilismo? (Nota di Lunaria: stranamente, il più bel libro sul Nulla, che ho letto, è proprio stato scritto da un cristiano: Sergio Quinzio. Certamente, non un cristiano tutto pic nic e gite con l'oratorio, si intende...)
"Nella più profonda oscurità del Nichilismo, ho cercato soltanto motivi per superarlo. E comunque non per virtù, né per una rara elevazione dell'anima, ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza."
Da questa assenza di Dio e dunque dall'assenza di una prospettiva oltre la morte, deriva un premio maggiore per le gioie che ci vengono offerte su questa terra. L'epigrafe de "Il Mito di Sisifo", ispirata al poeta greco Pindaro, non è posta a caso:
"Anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esplora il campo del possibile."
UN COMMENTO A SARTRE
«Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione.» «Il mio posto non è in nessun luogo; io sono di troppo.» Queste le desolate riflessioni di Antoine Roquentin, protagonista della Nausea. Nelle sue prime opere, Sartre descrive l'essere umano, messo quotidianamente a confronto con la minaccia del nulla, con l'angoscioso privilegio della libertà, con l'imprescindibile bisogno di progettualità, racchiuso nei limiti che il corpo, il tempo, gli altri, la morte gli impongono. La condizione umana comporta un prezzo di sofferenza che non ha senso, né ragione alcuna. Per viltà, gli uomini, nella loro maggioranza, occultano le proprie miserie, le proprie angosce, si mascherano di fronte a se stessi e agli altri, preferiscono vivere "in malafede"; al contrario per Sartre la dignità umana sta proprio nell'autenticità, che non può prescindere dal riconoscimento del nulla, della negatività, della morte. È questo, anzi, il presupposto della libertà che quindi è scelta consapevole
del proprio destino, accettazione delle proprie responsabilità profonde, e si contrappone a quello che egli definisce lo "spirito di serietà": l'uomo non può semplicemente adeguarsi a valori,
morali o religiosi, che gli vengono dati dall'esterno, e assumere così dei "ruoli" che lo imprigionano, ma deve percorrere un difficile cammino per scoprire la propria autenticità e quindi la propria libertà. Certo, questi temi, queste suggestioni non caratterizzano solo Sartre: sono presenti nella contemporanea
filosofia tedesca, che egli del resto ben conosceva, e costituiscono il terreno comune anche di molti intellettuali e scrittori francesi che vissero con intensità, ma anche con grande incertezza sul futuro, gli anni che precedettero la Seconda guerra mondiale: da Nizan a Camus, da Merleau-Ponty alla
stessa Simone de Beauvoir. Sartre ebbe la caratteristica di trattarli sistematicamente, filosoficamente e, al tempo stesso, di "incarnarli" in personaggi che divennero ben presto dei simboli,
almeno per la sua generazione. (dal commento introduttivo di Giorgio Monicelli)