Jean Paul Sartre


Questo fu il mio secondo scrittarello di Filosofia, dopo quello di Cioran; riletto ora, con quello che so ora, mi sembra un piccolo pulcino appena nato; all'epoca ero ancora così gracilina, mi mancavano ancora tante basi, ma ero piena di passione... :D
Così lo ripubblico, lasciandolo tale e quale ad allora, anche se molto avrei da aggiungere, e molto avrei da collegare, nei rimandi e nelle citazioni... ma lo lascio così, nel suo essere un piccolo schemino scritto da un'autodidatta.
Non è un saggio, non ha pretesa di esserlo, è uno scrittarello introduttivo. Non credo che a Sartre dia fastidio! :D

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Pubblico un mio "studio critico" su Jean Paul Sartre, mio grande idolo filosofico che spero di omaggiare con questo articolo.

Come per Cioran, la mia intenzione non è quella di stilare un "noioso" elenco sterile di parole e fatti, preferisco far parlare il mio cuore e i miei sentimenti!

Spero quindi che possiate percepire delle emozioni che vi spingano a riflettere sui perché della vita, magari approfondendo proprio questo capisaldo!

Per un commento esaustivo a Sartre, vedere "Storia della filosofia"
di Franco Restaino volume quarto, tomo secondo.
Ottimo commento su Sartre e analisi eccellente delle pricipali dottrine filosofiche del '900

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Nato il 21 giugno 1905 si può affermare che influenzò quasi tutto il '900. Nel '33 si reca a Berlino dove apprende i fondamenti della Fenomenologia: le sue prime opere riflettono la genialità degli insegnamenti di Husserl.

Catturato dai nazisti nel 1940, riesce a fuggire; questo evento incide profondamente sul suo pensiero, tanto che sebbene ateo, non ha smai smesso di predicare l'impegno alla vita, il suo impegno politico (da notare come la sua compagna Simone de Beauvoir fece altrettanto in campo femminista) l'impegno nel costruirsi il proprio senso, con le proprie forze.

A torto, lo si accusa di tetraggine e depressione, eppure nel manifesto ideologico "L'Esistenzialismo è un Umanismo"(1946) scrive:

"L'uomo sarà  innanzitutto tutto quello che avrà  progettato di essere... L'uomo è responsabile di quello che è."

Frasi da depresso?

Al contrario, frasi che denotano una grande ammirazione per la capacità costruttiva dell'intelletto umano.

Sartre fa quindi paura solo a chi non si assume mai le proprie responsabilità, né vuole costruirsi da sé il proprio futuro.

Con l'io penso di Cartesio, l'uomo raggiunge la coscienza di sé, anche e soprattutto della propria solitudine.

Siamo quindi liberi, sì, ma condannati a questa libertà, condannati a fare scelte più o meno angoscianti, per tutta la durata della vita.

L'eco di Heidegger è forte in Sartre:

"Una volta gettato nel mondo l'uomo è responsabile di tutto quanto fa."

e ancora:

"Non posso contare su niente... Non c'è realtà che nell'azione".

Sono le due chiavi per accedere al pensiero di Sartre, un pensiero
che non è apatico, non è atarassico e statico, ma dinamico e creativo.

A mio parere si può vedere un eco di Hegel:

Sensazione-percezione-intelletto, e dramma dell'Autocoscienza
che culmina nella "Nausea per la vita".

Con l'Esistenzialismo sartriano abbiamo la progressiva costruzione
della coscienza individuale, del nostro io, di fronte all'angoscia
delle scelte e della solitudine, (che Dio esista o no, non importa: ma se esiste ci ha abbandonato) dell'"essere gettati"
(il Dasein heideggeriano).

Questa presa di coscienza, a torto ritenuta pessimista, è l'unica possibile.

Come si può credere al "questo è il migliore dei mondi possibili" di Leibniz, al bene nel mondo, se tutti noi sperimentiamo il dolore?

Certo, è consolante rifugiarsi in sofismi infantili, se serve a stare meglio, al "la vita è meravigliosa e va tutelata", "il dono più grande è l'amore", "Dio ci ama"... ma se apriamo gli occhi, e Sartre ci invita a farlo, e subito, vediamo che nell'esistenza prevale il dolore o in termini più impersonali, il Nulla.

Sospendiamo il giudizio escatologico o se, dopo la morte, ci aspetti o no una ricompensa.

Nel qui e nell'ora esistenziale non ha senso aspettarsi ricompense ultraterrene, ne far affidamento al "domani farò": è reale solo ciò che c'è ora.

Possiamo quasi paragonare Sartre a un angelo caduto che ci dona la luce, il lume, della ragione e della consapevolezza, esorcizzate dalle melense e stucchevoli credenze ottimiste.

La vita acquista il senso che noi gli diamo, ma anche se non gli diamo un senso, scegliamo di non scegliere: non è possibile non scegliere.

Sartre ci invita, ci esorta a vivere al momento, a farci carico di noi stessi del nostro "divenire", a non avere rimpianti.

"L'Esistenzialismo è un ottimismo, è una dottrina d'azione."

E la sua Nausea esistenziale è salutare, perché ci aiuta a prendere coscienza del dolore, distruggendo le illusioni e i sentimentalismi.
Accettando il dolore come inevitabile (ecco un eco di Schopenhauer!) forse riusciremo anche a combatterlo, A GUARDARLO IN FACCIA, anche se è impossibile sconfiggerlo, perché il dolore nullifica l'essere dell'uomo, nega il divenire e ci pone nella condizione di far sì che quanto abbiamo sofferto non possa mai più essere cancellato.

è falso e menzognero sostenere il contrario!

"L'uomo si presenta come un essere che fa apparire il Nulla nel mondo."

"L'uomo è l'essere per cui il Nulla viene al mondo."

"è nell'angoscia che l'uomo prende coscienza della sua libertà . L'angoscia è il modo d'essere della libertà come coscienza d'essere."

"L'angoscia sono io."

Come riuscire ad essere liberi dal proprio passato?

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Riporto anche la mia recensione sulla "Nausea"

Capisaldo dell'Esistenzialismo francese, ottimo filosofo, pieno di
fiducia (per quanto ne dicano i detrattori..) sulle capacità creativa dell'essere umano di costruirsi il proprio senso dell'esistenza, si dimostra anche brillante romanziere. "La Nausea" - il titolo dice tutto - è il disagio del protagonista (forse lo stesso Sartre?) Antoine Roquentin, che attraverso i suoi monologhi trascritti su fogli di diario, ci conduce in una bieca palude dove nausea, noia, vuoto ci travolgono.
Potrebbe quasi essere uno Zeno Cosini più giovanile, quindi più vicino a noi. Perché questo romanzo - del 1938 -
racconta non solo il disagio di un ragazzo del '38 ma anche il tedio che colpisce tuttora noi "ragazzi del 2000".

"Mi è accaduto qualcosa,
non posso più dubitarne... è sorta in me come una malattia... si è
insinuata a poco a poco... ecco che ora si espande..."

"Le note... corrono, s'inseguono, mi piacerebbe trattenerne una, tra le dita... devo accettare la loro morte;devo perfino volerla."

"La Nausea è rimasta laggiù, nella luce gialla. Sono felice, questo freddo è così puro, così pura è questa notte; che non sia io stesso un'onda di aria gelata? Non avere né sangue, né linfa né carne... scorrere in questo lungo canale verso quel pallore, laggiù... Non essere altro che un po' di freddo."

"Vado a caso, vuoto e calmo sotto un cielo inutilizzato."

Ma Sartre non ci ha lasciati in balia del Nulla, che pure
corrode la vita umana... ecco che con la sua filosofia reale, ci ha trasmesso la capacità di credere che se la vita non ha senso a priori e siamo condannati ad essere liberi, spetta a noi soli crearci un senso. Coscienti di questo, coscienti che il dolore ci accompagnerà sempre, il Freddo non prevarrà. L'uomo è libero, è libertà, ma è condannato a questa libertà, a questa enorme solitudine, a questo libero arbitrio...

Rispetto a veri e propri profeti del Nulla (auto)distruttivo - un Caraco, un Cioran - Sartre ha demolito tutto ma per poter ricostruire qualcosa. 

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Riporto il mio concetto preferito di Sartre!

LO SGUARDO DELL' ALTRO

L'altro è, in Sartre, vissuto come antagonista ("l'inferno sono gli altri" scrive Sartre), in quanto relativizzando il mio punto
di vista limita la mia libertà: il suo "sguardo" mi oggettiva, mi reifica, murandomi nelle sue stesse idee, nei suoi pensieri, nei quali io vengo solidificato, detenuto, dalle quali non posso evadere, sulle quali non ho potere.
Tuttavia lo sguardo dell'altro, oltre che perturbante, è la garanzia della mia esistenza, la testimonianza che non sono una nullità.
Scrive Sartre ne "Il rinvio": "Che angoscia scoprire quello sguardo come un centro universale dal quale non posso evadere; ma che riposo, anche! So infatti di essere. Trasformo quel penso dunque sono e dico mi si vede dunque sono, colui che mi vede mi fa essere: sono come egli mi vede."

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Sartre e Camus nel commento di Desalmand

Jean Paul Sartre è la figura di spicco dell'Esistenzialismo Ateo. Posta fin dall'inizio l'assenza di Dio, si tratta di rispondere alla domanda "che fare?"; su che cosa basarsi per stabilire una linea di condotta meditata? Visto che i valori non scendono più giù dal cielo, dove trovarli? La risposta è semplice: in se stessi.
Per Sartre, l'uomo è l'essere attraverso il quale i valori vengono al mondo. Ognuno deve assumere la sua libertà. Per Sartre il Bene è accettarsi come un essere libero, responsabile di ciò che la storia ha fatto di lui. Il Male è fuggire da questa responsabilità, preferendo un destino subito a un destino scelto.
Quest'idea di un uomo che rifiuta la tutela degli Dei, e perciò diventa responsabile, appare in molti personaggi sartriani e specialmente in Oreste, personaggio centrale delle "Mosche" (che qui si rivolge a Giove):

"Straniero a me stesso, lo so. Fuori natura, contro natura, senza scuse, senza ricorrere a niente altro che a me. Ma io non ritornerò sotto la tua legge: sono condannato a non avere altra legge al di fuori della mia. (*) Io non ritornerò alla tua natura: vi sono tracciati mille percorsi che conducono verso di te, ma io posso seguire solo il mio percorso. Perchè io sono un uomo, Giove, e ogni uomo deve inventarsi il suo cammino."


(*) Nota di Lunaria: si ricordi il parallelo con Schiller nei "Masnadieri" (1781):

"Comunque tu sia, Indicibile Eternità,
solo questo mio Io resta fedele... comunque tu sia,
porterò con me solo me stesso.
Le cose esteriori sono solo l'apparenza dell'uomo.
IO SONO IL MIO CIELO E IL MIO INFERNO"

Oltre che col Satana Miltoniano:

"Perché dovunque fugga è sempre inferno: sono io l'inferno;
e nell'abisso più fondo un altro abisso"

"La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso;"

Probabilmente, un sartreaismo estremo sfocerebbe nella disperazione, se non ad un vivere arido. Tuttavia, è possibile sublimare concetti come "bisogno di infinito, di conforto", l'anelito all'Infinito, al Metafisico, al Sehnsucht, nella solidarietà (Sorellanza...) o nell'Arte. Arte diventa contemplazione del Bello, della scintilla "spirituale" nell'essere umano, che crea infiniti universi, con la sua fantasia. Non abbiamo bisogno di un dio, men che meno maschile, per nobilitare l'esistenza umana. Basta l'Arte a 360 gradi.


Sartre si avvicina alle tesi di Marx sulla religione, concepita come un'illusione alienante, ma il suo ateismo non si limita a questo. è metafisico. L'idea di un Dio artigiano è respinta, perché l'uomo non può essere considerato come un automa, concepito come un ingegnere. All'origine (come nella testa di un ingegnere che concepisce un automa) non c'è una natura umana, una essenza di origine trascendente, di cui l'esistenza degli individui sarebbe solo uno sviluppo. All'opposto l'esistenza precede l'essenza: ciò a cui si riconduce un individuo, la sua essenza, è determinato solo dalla sua esistenza, dalla somma dei suoi atti (supponendo di poterli conoscere tutti), cioè solo il giorno in cui sarà possibile un'addizione, vale a dire, il giorno della sua morte.

"L'uomo, senza alcun appoggio e senza alcun soccorso, è condannato in ogni istante a inventare l'uomo"


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Il punto di partenza di Albert Camus è agnostico piuttosto che ateo. In un certo periodo aveva immaginato di attribuire come sottotitolo al "Malentendu": "Dio non risponde".

Il discorso dell'assurdo si ricollega a quel silenzio. (*) 
L'assurdo non esiste in sé. Non è neppure possibile dire che il mondo è assurdo. (**) Esiste solo, senza alcun dubbio, il "sentimento dell'assurdo", che nasce da un appello senza risposta:

"Dicevo che il mondo è assurdo (...) L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo. Per il momento è il loro solo legame. Li sigilla l'uno all'altro come solo l'odio può inchiodare tra loro gli esseri."


(*) Una Mary Daly potrebbe far notare che più che il silenzio di Dio, ad essere problematica e di limite, è la sua virilità.
Un James Cone potrebbe far notare che più che il silenzio di Dio, ad essere problematica e di limite è la sua epidermide; e anche qui, abbiamo i due gruppi esclusi (e ambedue oppressi nella storia) da questo concetto di Dio-Nasce-In-Terra: le donne e i neri.

(**) Sulla giustificazione della "Madre Natura Matrigna" che provoca "male" a suo capriccio, si veda de Sade e la sua concezione di "economia dell'universo" esposta nel "Justine"; il male è necessario al bene, il vizio alla virtù. Catastrofi naturali - e persino le lotte tra individui - servono a questo grande "motore naturale" per muoversi e continuare a farlo.


Che comportamento adottare a partire dalla tabula rasa del Nichilismo? (Nota di Lunaria: stranamente, il più bel libro sul Nulla, che ho letto, è proprio stato scritto da un cristiano: Sergio Quinzio. Certamente, non un cristiano tutto pic nic e gite con l'oratorio, si intende...)

"Nella più profonda oscurità del Nichilismo, ho cercato soltanto motivi per superarlo. E comunque non per virtù, né per una rara elevazione dell'anima, ma per fedeltà istintiva a una luce in cui sono nato e in cui da millenni gli uomini hanno imparato a salutare la vita perfino nella sofferenza."

Da questa assenza di Dio (*) e dunque dall'assenza di una prospettiva oltre la morte, deriva un premio maggiore per le gioie che ci vengono offerte su questa terra. L'epigrafe de "Il Mito di Sisifo", ispirata al poeta greco Pindaro, non è posta a caso:

"Anima mia, non aspirare alla vita immortale,
ma esplora il campo del possibile."


(*) Dall'assenza di Dio, la morte totale di questo Dio, deriverebbe, per la prima volta, la morte totale del fallo cosmico, e quindi, la liberazione per la donna. Se Dio è morto, se non esiste più alcun concetto di maschietà ipostatica, se lo stesso concetto di Dio non significa più nulla, ecco che non esiste più alcuna virilità trascesa che tiranneggia la psiche delle donne. La morte di dio, di quel concetto di dio, rende libere le donne.

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UN COMMENTO A SARTRE

«Ogni esistenza nasce senza ragione, si protrae per debolezza e    
muore per combinazione.» «Il mio posto non è in nessun luogo;    
io sono di troppo.» Queste le desolate riflessioni di Antoine Roquentin, protagonista della Nausea. Nelle sue prime opere, Sartre descrive l'essere umano, messo quotidianamente a confronto    
con la minaccia del nulla, con l'angoscioso privilegio della libertà, con l'imprescindibile bisogno di progettualità, racchiuso nei limiti che il corpo, il tempo, gli altri, la morte gli impongono. La condizione umana comporta un prezzo di sofferenza che non ha senso, né ragione alcuna. Per viltà, gli uomini, nella loro maggioranza, occultano le proprie miserie, le proprie angosce, si mascherano di fronte a se stessi e agli altri, preferiscono vivere "in malafede"; al contrario per Sartre la dignità umana sta    proprio nell'autenticità, che non può prescindere dal riconoscimento del nulla, della negatività, della morte. È questo, anzi, il presupposto della libertà che quindi è scelta consapevole
del proprio destino, accettazione delle proprie responsabilità    
profonde, e si contrappone a quello che egli definisce lo "spirito di serietà": l'uomo non può semplicemente adeguarsi a valori,    
morali o religiosi, che gli vengono dati dall'esterno, e assumere così dei "ruoli" che lo imprigionano, ma deve percorrere un    
difficile cammino per scoprire la propria autenticità e quindi la propria libertà. Certo, questi temi, queste suggestioni non    
caratterizzano solo Sartre: sono presenti nella contemporanea    
filosofia tedesca, che egli del resto    ben conosceva, e   
costituiscono il terreno comune anche di molti intellettuali e    
scrittori francesi che vissero con intensità, ma anche con grande incertezza sul futuro, gli anni che precedettero la Seconda  guerra mondiale: da Nizan a Camus, da Merleau-Ponty alla    
stessa Simone de Beauvoir. Sartre ebbe la caratteristica di    
trattarli sistematicamente, filosoficamente e, al tempo stesso, di "incarnarli" in personaggi che divennero ben presto dei simboli,    
almeno per la sua generazione.   

(dal commento introduttivo di Giorgio Monicelli)